Virtual Set

di:
Egidio Bertazzoni

SFIDA ALL’INFINITO ovvero LA LINEA DEI SOGNI POSSIBILI

(teatro e nuove tecnologie )

di Egidio Bertazzoni

A quelli come me, cui le vicende lavorative, l’occasione, il caso hanno concesso di “spigolare” tra diverse possibilità (teatro, tv, video) prima o poi sorgono delle domande, quasi obbligate dalle circostanze: può darsi una contaminazione dei diversi generi? È possibile? Inevitabile, addirittura? E poi: quanto è interessante e significativa dal punto di vista espressivo? E ancora: rappresenta una “nuova frontiera” dei generi? In quale misura può risentirne lo “specifico” di ciascuno?
Una lunga fila di questioni da perderci la testa, ma, io credo, la domanda principale cui dobbiamo rispondere è un’altra ancora, vale a dire: la contaminazione è, per così dire, innata in queste diverse forme che giunte allo stremo delle proprie potenzialità espressive cercano da sole, motu proprio, di esplorare nuove strade, o non dipende piuttosto da un progetto messo a punto da una volontà esterna, una decisione presa quasi freddamente da uno o più operatori (scrittori, registi, committenti, tecnici, produttori etc.) che, per piacere o per necessità, decidono di sperimentare questo tipo di incroci? (attenzione: parliamo di incroci in quanto scambi strategici e fecondi, non di giustapposizioni che lasciano il tempo che trovano).
Insomma, la contaminazione fra i generi dipende da un’esigenza interna o da volontà esterna?
Istintivamente rispondo che ritengo più fondata la prima ipotesi: al teatro, ad esempio, da sempre lo spazio sta stretto perciò inventarsi una via di fuga è una tentazione insopprimibile.
Allo stesso modo, per la telecamera la possibilità di entrare in un testo – e farne parte senza limitarsi ad assistere alla sua rappresentazione – è ugualmente un bisogno inconfessato…quasi che teatro e tv tendano a compiersi incontrandosi, ed è una loro componente costitutiva, fatta di elementi comuni (il teatro, oltre ad educare, diffonde cultura, la tv ha avuto una certa vocazione ad educare alla cultura, oltre a diffonderla – anche se oggigiorno parlare di cultura in tv è un po’imbarazzante, ma si può sempre cambiare, non è mai troppo tardi), elementi comuni, dicevo, proiettati verso esiti rivoluzionari. Addirittura?
Eh sì, e non mancano gli esempi: in fondo la “rivoluzione wagneriana” coi suoi ipercitati Ton, Drama e Wort non è che l’inizio di questo percorso. Allora non c’era la tecnologia, ma l’intuizione resta fondante.
Così come oggi Peter Brook dichiara che non farà più spettacoli di sola parola,

senza la musica, o come i grandi registi cinematografici – Ingmar Bergman su tutti – prima o poi hanno tentato la sintesi cinema-opera lirica, o come ieri Strehler e Ronconi inserivano proiezioni ed effetti (Strehler incomincia col frastuono dei bombardieri nel “Nost Milan” negli anni ’50) – gli accostamenti “pericolosi” non gli facevano certo paura -, continua con i video dell’“Elvira” e finisce con le bellissime proiezioni e sovrapposizioni del “Faust” degli ultimi anni),

o infine Robert Lepage (l’altr’anno) che fa entrare la telecamera sul palcoscenico, la collega a uno schermo

in sala, e ci rimanda immagini e angolazioni e aspetti dello spettacolo che altrimenti ci sfuggirebbero.
Insomma, i confini stanno stretti, e l’esigenza di spingersi oltre, di andare in là, di liberarsi dai vincoli fino a qualche anno fa insormontabili scuote dall’interno le forme espressive, cresce, si gonfia, spinge.
Ed è giusto sia così, io penso: se si lavora su una forma spremendone fino in fondo le potenzialità, il passaggio verso una configurazione diversa potrebbe essere estremamente fecondo. Per fare un esempio, se un violinista suona benissimo un normale – sia pure buono, ottimo – violino, ed è capace di trarne il massimo, quando riuscirà a mettere le mani su uno Stradivari o un Gualtieri del Gesù, chissà cosa succede…
Intendiamoci: non voglio certo paragonare le proiezioni, il virtual set o altre tecnologie a uno Stradivarius, solo mi piace sottolineare il fatto che si possono aprire nuovi territori sconosciuti dopo che siano state sperimentate fino in fondo le possibilità dei mezzi espressivi tradizionali. È un po’ una sfida all’infinito, questa delle nuove tecnologie, ma sempre – sia chiaro – fatto salvo il principio di fondo, ineliminabile e non sostituibile da nessuna macchina: la comunicazione di uomini ad altri uomini, il rapporto che si stabilisce tra individui, vale a dire la ragione fondante del teatro e dei mezzi di comunicazione in genere. Tutto il resto è in più, ma non si può far finta che non esista.
Cerchiamo di capire meglio.
Nell’oggi, la commistione più immediata – e da qualche decennio praticata – è quella rappresentata dalle proiezioni: sul palcoscenico si proiettano sfondi o immagini in movimento, dietro agli attori, su un angolo di scenografia, in quinta, su uno schermo.

Lo stesso avviene in televisione – anche qui da qualche decennio – grazie al croma-key, letteralmente chiave di colore, vale a dire un intarsio di due diversi segnali video (immagini) su uno sfondo colorato – verde o blu – per creare un ambiente – che si vedrà solo in onda, all’atto della rappresentazione televisiva, non nella realtà – intorno a un determinato soggetto.

Così l’ospite in collegamento da Milano o da Parigi parlerà con alle spalle (immagini girate in precedenza) il Duomo o Notre Dame o la folla che passeggia in Galleria o in Place Vendome senza muoversi dallo studio televisivo.
Tutto questo, è ovvio, per sfondare lo spazio, allungare, allargare, far intuire altro oltre la scena. Sollecitare l’immaginazione dello spettatore, fornirgli nuovi stimoli che non devono spiegare, ma suscitare emozioni, l’emozione sorgente della ragione ha scritto qualcuno. Appunto, ecco qua allora che si viene così delineando un possibile ambito, uno “specifico” per le nuove tecnologie in teatro e precisamente la linea ideale fra interno ed esterno, a cavallo dei limiti spaziali e temporali…in ultima analisi lo scopo finale di qualunque forma espressiva, la linea del sogno.
Tutto concorre, nel lavoro artigianale per definizione: il testo, la recitazione – la bravura degli interpreti – le scene, i costumi e oggi, in più, talvolta, le nuove tecnologie, assolutamente congrue perché anch’esse frutto di paziente ideazione, lavoro, correzione, limatura, adeguamento di idee, prove, riprove e così via…il lavoro artigianale, appunto.
Però un lavoro artigianale che induce in tentazione anche il mezzo industriale per eccellenza, la televisione, in una specie di contraccolpo logico difficilmente prevedibile e forse portatore di grandi novità.
Infatti, le proiezioni, abbiamo detto…ma ormai anche quelle sono superabili…eh sì, ed è questo il bello della tecnologia, una tecnologia governata dalla passione e dalla ragione, si capisce: che genera continuamente da sé le condizioni della propria autoanalisi critica e del proprio superamento (anche i cosiddetti problemi tecnici, se vissuti in questa prospettiva, divengono uno stimolo importante .Anzi, più vincoli ci sono, più si affina la creatività, almeno secondo Renzo Piano a proposito del nuovo Palais de justice di Parigi da lui concepito).

Ecco allora, nel caso delle arti visive e degli spettacoli dal vivo farsi avanti, lungo la linea del sogno la scenografia virtuale o virtual set, discendente diretta del croma-key.
Nella scenografia virtuale uno o più soggetti su un semplice sfondo blu (nella realtà, così come avveniva nel c.k.) in onda invece agiscono all’interno di una scenografia completa. E mobile, trasformabile.
In un primo tempo concepita e nata, sto semplificando e molto, in quanto strumento di servizio, sostitutivo della grafica (una delle sue prime utilizzazione consisteva nel far apparire, sorgenti dal basso, delle tabelle con le diverse percentuali dei risultati elettorali), poi quale soluzione sostitutiva, più “a buon mercato“ della scenografia tradizionale (costa meno disegnare un mobile e lavorare il bozzetto al computer, piuttosto che acquistare l’oggetto), finché qualcuno (la spinta dall’esterno!) si è reso conto che così la scenografia virtuale era al minimo delle proprie possibilità (con un esito espressivo da cartoni animati, “The Flinstone” in particolare) e perciò ha cominciato mano a mano a riconsiderala, ripensarla, rielaborarla. Da quel momento “il virtuale” ha cominciato a vivere di nuova vita, assumendo una propria ragion d’essere originale.

Il concetto chiave del virtual set non è più la possibilità di sostituire il reale, ma l’idea di movimento, di adattabilità…vien fuori la sua natura “plastilinica“, modellabile.
Per fare un esempio, in una delle sue utilizzazioni più “nobili”, le scene per una commedia (questa, della prosa, è una strada pochissimo battuta per il virtual set), si spiega benissimo il ragionamento sulla modellabilità: poniamo il caso che in una determinata scena i personaggi debbano esprimere un particolare senso di disagio nei confronti della città. C’è il testo, naturalmente, la recitazione…ma se per caso ricorre l’urgenza che le scene si rivelino ancora più opprimenti di quanto previsto all’inizio dai bozzetti dello scenografo…ebbene, si cambia la scenografia, quasi al volo, si accentuano certi aspetti, se ne sottraggono e aggiungono altri, si prepara una nuova scena tenendo anche conto di altre esigenze insorte nel frattempo da parte degli attori, del regista. Ecco che la tecnologia si è fatta materiale – e materia – espressiva, e si fa facendo, viene lavorata adattandola anche in brevissimo tempo – esagero, ma non troppo – a tutto il complesso della resa stilistica, del progetto teatrale.
E non solo, lo accenno e basta ma è un discorso che merita discussione e approfondimento: il vitual set fa passare il teatro dalla bi-dimensionalità alla tri-dimensionalità, aggiunge materialmente allo spazio del palcoscenico il vettore profondità, consentendo di moltiplicare la profondità della scena: se un attore nella realtà muove tre o quattro passi, con la scenografia virtuale si può farlo vedere mentre spunta lontanissimo, sul fondo e viene avanti in una lunga camminata.
Comunque sia, lontana da me l’idea di voler sostituire la bravura dell’attore o la forza di un testo e di una regia con un trucco tecnologico: come detto, il vitual set aggiunge qualcosa a questi ineliminabili protagonisti del teatro, è in più, non “al posto di”… per un risultato ancora poco conosciuto e analizzato. Il lavoro teatrale è sempre lo stesso, solo che la modellabilità, la caratteristica plastilinica si pongono esattamente al centro, nel punto di intersezione delle altre componenti dello spettacolo: testo, recitazione, costumi, regia etc. ed entrano a farne parte a pieno titolo.
Tanti affluenti, tutti in movimento verso il fiume della costruzione di uno spettacolo, fino allo sbocco ultimo della rappresentazione, della costruzione del sogno.
Certo, tutto questo è fruibile solo attraverso il piccolo schermo, e qui potrebbe aprirsi una discussione vertiginosa sulla “quarta parete” (la linea invisibile che separa la scena dalla platea) croce e ben poca delizia di ogni teatrante: non siamo per caso sul punto di crearne una quinta? Ne risente, e quanto, il rapporto forte, incandescente che dovrebbe stabilirsi in teatro fra attore – centro di tutto – e spettatore?
E subito mi viene da pensare cosa ne risulterebbe – esperimento a quel che mi risulta non ancora tentato – se di fronte al (ai) monitor dove si proietta il virtual set sedesse una platea teatrale vera e propria…sarebbe uno scenario nuovo anche per il mezzo televisivo… E ancora, vuoto per vuoto, sarebbe bello fare una scenografia virtuale di nulla, solo di uno spazio appena tracciato, appunto uno spazio vuoto moltiplicato per sé stesso alla n°… profondità ripetuta infinite volte… E poi una riflessione sui costi, le risorse e gli investimenti: a tutt’oggi il virtual set non è ancora esattamente calcolabile, anche se, prima o dopo… ma qui il discorso si fa un po’ fumoso, difficile e faticoso, meglio rimandare (ma non eludere, speriamo di poterci tornare su presto).
Importante sarebbe riunire in qualche modo e da qualche parte tanti soggetti: operatori del settore, come si dice oggi, Università, Scuole civiche, persone interessate in genere per condurli a riflettere su questi argomenti, perché, si capisce, un conto è farle, queste cose, presi nel vortice del lavoro, nell’urgenza della realizzazione e della messa in onda, nella penuria di risorse e investimenti, un conto è riuscire a “staccarsi” emotivamente, e cercare di costruire un ragionamento, soprattutto potendosi confrontare con altri, e anche con i giovani partecipanti, con le loro ingenuità ma anche con la loro testa sgombra di pre-giudizi, con la loro voglia di saperne sempre di più…Insomma, io scommetto che da questa esperienza, dai suoi limiti, dai suoi errori, dal suo entusiasmo potrebbe costituirsi una base importante, e fino a questo momento unica per continuare nella costruzione del nostro lavoro.