Fuori del limbo non v’è eliso

di:
Gabriele Tomasi

Lo spazio come elemento oppressivo e straniante ne L’isola di Arturo.

Quando si pensa a Procida, ammirandola dal Golfo di Napoli o in una cartolina datata, spontaneamente sorge l’idea di un luogo immerso dentro un’atmosfera idilliaca. L’immaginario comune è rafforzato dalla calorosità e dal folklore del popolo partenopeo, che fanno dell’isola la meta in cui ognuno vorrebbe trascorrere il resto dei propri giorni. L’invidia provata genuinamente verso gli abitanti non tiene conto, però, della quotidianità statica e monotona che caratterizza luoghi simili. Inoltre, gli intensi flussi turistici durante la stagione estiva sono una prerogativa degli ultimi decenni. Prima, l’isola mostrava tutt’altro aspetto.
Così, un luogo incantevole può risultare al tempo stesso opprimente per soggetti spinti alla dinamicità e al mutamento, fisici o mentali che siano. La tensione tra idillio e prigione, vissuta sotto forma di conflitto interiore, è presente tra le pagine de L’isola di Arturo, celebre romanzo di Elsa Morante. Protagonista della storia è il giovane Arturo, nato e cresciuto a Procida. Orfano di madre e abituato alle lunghe assenze del padre Wilhelm, è solito ingannare la solitudine facendo uso della fantasia. Trascorre le giornate leggendo storie di pirati, immaginando le origini mitiche del proprio nome, disegnando sull’atlante i viaggi che compirà in futuro.
Complice l’età, Arturo non ha mai lasciato le coste isolane. Tale spazio conchiuso rappresenta per lui l’intero mondo conosciuto. In qualità di abitante del posto, il giovane è provvisto di un’esperienza utile a raffigurare l’isola e i suoi abitanti sotto ogni aspetto e ad evidenziarne le rispettive luci ed ombre. È il suo sguardo a condurci per Procida. Essendo noi lettori identità esterne ed estranee al luogo, conosceremo l’isola tramite un itinerario tipicamente turistico. Dunque, la descrizione prende avvio dal porto, luogo di approdo. Prosegue per le case «rustiche e antiche di secoli, che appaiono severe e tristi». Passando davanti alle caffetterie e alle botteghe, la nostra attenzione viene catturata da un elemento straniante: le strade e la piazza appaiono silenziose e deserte, anziché straripanti di persone come ci aspettavamo. Fino alla metà del Novecento, le isole campane protagoniste del turismo erano Ischia e Capri. Invece, Procida conservava ancora un aspetto indipendente e selvaggio. Così, come sottolinea Arturo, «l’arrivo d’un forestiero non desta curiosità, ma piuttosto diffidenza». Lo stesso senso di ostilità traspare nella descrizione dell’abitazione di Arturo. Questa, rinominata Casa dei guaglioni a causa dell’originario proprietario che non ammetteva la presenza di alcuna figura femminile, è collocata in un punto impervio e remoto dell’isola. Il suo aspetto cupo e fatiscente danno vita ad una credenza popolare, secondo cui «l’odio del proprietario defunto rendeva per sempre fatale alle donne il soggiorno». Il senso di morte scorre di pari passo a quello di rovina e d’abbandono.

Credo che i ragni, le lucertole, gli uccelli, e in genere tutti gli esseri non umani, dovessero considerare la nostra casa una torre disabitata dell’epoca di Barbarossa, o addirittura un faraglione del mare. Lungo i muri esterni, da fessure e camminamenti segreti, spuntavano le lucertole come dalla terra; le rondini a migliaia, e le vespe, vi facevano i nidi. Uccelli di razze forestiere, di passaggio sull’isola nelle loro migrazioni, si fermavano a riposare sui davanzali. E perfino i gabbiani, dopo i loro tuffi, venivano ad asciugarsi le piume sul tetto, come sul pennone d’una nave o sulla cima d’uno scoglio.

L’ambiguità che caratterizza l’isola di Procida, per Arturo è presente in ogni spazio eccetto il Penitenziario. La prigione è per lui «una mostruosità ingiusta, assurda, come la morte», dunque un luogo verso cui è impossibile nutrire alcuna empatia. Opposto al giudizio di Arturo è quello del padre, che reputa gli invisibili i soli abitanti dell’isola verso cui non nutre disprezzo. Per tutto il romanzo, la figura di Wilhelm Gerace appare avvolta da un alone di mistero. Le sue continue partenze, il suo essere silenzioso e anaffettivo nei confronti del figlio e della nuova moglie Nunziata, sono tutti elementi che vengono interpretati ancora una volta da Arturo in chiave fantastica. Qualunque azione del padre, qualunque sua amicizia appare sacra ed eroica. È proprio la scoperta dei segreti del padre, rimasto sempre nei pressi dell’isola ed impegnato in una presunta relazione amorosa con un carcerato, a decretare la fine dell’infanzia mitica di Arturo. Con l’adolescenza, Arturo entra in contatto con un mondo fatto di disillusioni e pulsioni carnali che lo fanno precipitare in una realtà a lui sconosciuta, ma a cui il resto dei procidani è da sempre abituato. A differenza dei propri conterranei, le disillusioni non comportano una rassegnazione alla staticità e monotonia da parte del giovane protagonista, piuttosto un abbandono del proprio luogo natìo.

Dalla campagna, già si udivano cantare i galletti. E d’un tratto, un rimpianto sconsolato mi si appesantì sul cuore, al pensiero del mattino che si sarebbe levato sull’isola, uguale agli altri giorni: le botteghe che si aprivano, le capre che uscivano dai capanni, la matrigna e Carminiello che scendevano nella cucina… Se, almeno, fosse durato sempre il presente inverno, malaticcio e smorto, sull’isola! Ma no, anche l’estate, invece, sarebbe tornata immancabilmente, uguale al solito. Non la si può uccidere, essa è un drago invulnerabile che sempre rinasce, con la sua fanciullezza meravigliosa. Ed era un’orrida gelosia che mi amareggiava, questa: di pensare all’isola di nuovo infuocata dall’estate, senza di me!

Nelle ultime pagine Arturo salirà su un piroscafo, darà le spalle a Procida e, chiudendo gli occhi, li riaprirà quando l’isola sarà ormai svanita.
La mancanza del lieto fine e l’impossibilità di conoscere cosa ne sarà di Arturo informano noi lettori riguardo il significato dell’opera. Immedesimandosi nel personaggio del giovane protagonista, la Morante ha voluto mostrare come spesso il passato e le proprie radici siano corde che avvinghiano l’individuo e ne ostacolano ogni movimento e l’identità più profonda. Come sottolineato dalla Dedica posta in esergo al romanzo, titolo di questo articolo, il paradiso esiste finché non si è costretti a misurarsi col mondo. Ciò vale tanto per l’infanzia quanto per ogni altra età in cui i sogni hanno la meglio sul contingente.