La Caverna e il Drago

di:
Luigi Ciorciolini

Dalla caverna del Drago a quella di Richard Gere (ma anche altro)

Ancora una volta nei percorsi iconautici incrociamo questo quadro di Paola Uccello, San Giorgio e il Drago.

In effetti questo dipinto, come anche molti altri, è un vero e proprio hub concettuale, per via delle sue regole compositive, degli archetipi di cui i protagonisti e il paesaggio sono portatori, di come Uccello mette in inquadratura il racconto sfruttando la psicologia dello spettatore. Ultima, ma non meno importante, della modalità con cui i contenuti del quadro si sono relazionati e si relazionano con la nostra cultura attraverso i secoli dall’antichità fino alle possibilità espressive dei nuovi media contemporanei, dal cinema alle altre forme di declinazione dello schermo.
E dunque riprendiamo una parte di un percorso fatto per parlare di un dettaglio apparentemente insignificante.

Stiamo parlando dell’atteggiamento della Principessa e del laccio che non chiarisce completamente chi conduca chi. Alcune considerazione sono già state fatte, le riprendiamo per affrontare un altro tema. Ripartiamo dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, che narra del popolo dei Seleniti (pagani adoratori della Luna? Jacopo sorvola…) perseguitati da un Drago e a cui il re sta per offrire in pasto la propria figlia Silene, nei pressi di un lago. San Giorgio passava di là in quel momento, manco fosse Alan Ladd de Il cavaliere della Valle Solitaria. Il cavaliere saputo dell’imminente sacrificio, tranquillizzò la principessa, promettendole il suo intervento per evitarle la brutale morte. Poi disse alla principessa Silene di non aver timore e di avvolgere la sua cintura (elemento di bellezza sacro a Venere) al collo del drago, il quale prese a seguirla docilmente verso la città. Gli abitanti erano atterriti nel vedere il drago avvicinarsi, ma Giorgio li tranquillizzò, dicendo loro di non aver timore poiché «Iddio mi ha mandato a voi per liberarvi dal drago: se abbraccerete la fede in Cristo, riceverete il battesimo e io ucciderò il mostro». Allora il re e la popolazione dei Seleniti, non avendo nulla da dire sul fatto che sembrava quasi un ‘pizzo’ (visto che fino ad allora ne pagavano uno peggiore), si convertirono e il cavaliere uccise il drago e lo fece portare fuori dalla città, trascinato da quattro paia di buoi.

Dell’ambiguità archetipica che passa attraverso i tre protagonisti del quadro abbiamo detto altrove, qua prendiamo un altro sentiero e approfondiamo intanto il ruolo del laccio in situazioni in cui le sante se la cavano benissimo senza interventi maschili.
La leggenda di Santa Marta, come la conosciamo oggi, compare solo nel XII secolo. Narra che dopo l’Ascensione di Gesù, i tre fratelli Lazzaro, Marta, Maria Maddalena e altri sarebbero stati imbarcati dagli infedeli su un’imbarcazione senza vele né remi, né timone, né provviste. Fu così che approdarono a Marsiglia. Santa Marta “molto eloquente e amabile con tutti” operò parecchie conversioni. La leggenda racconta inoltre che nei tempi in cui Santa Marta stava evangelizzando la Provenza un terribile dragone, la Tarasca, devastasse le fertili pianure della valle del Rodano e impedisse agli uomini di vivere tranquilli in quei luoghi.

La Santa venuta a conoscenza del fatto, si recò nelle profondità dei boschi portando con sé dell’acqua benedetta. Dopo essersi avventurata nel fitto della foresta scorse la bestia nell’atto di divorare un uomo. Allora intinse un rametto d’issopo nell’acqua benedetta e la asperse tracciando il segno della croce. La bestia miracolosamente interruppe il suo pasto e strisciò ai piedi della Santa completamente domata e mansueta.

Marta la legò alla sua cintura e la portò nella città di Tarascona, che dal drago pare abbia derivato il proprio nome.

La santa che però si allontana da questo schema è Santa Margherita di Antiochia.

Mentre pascolava fu notata dal prefetto Ollario che tentò di sedurla nonostante la ragazza non volesse fare cinema, ma lei, avendo consacrato la sua verginità a Dio, confessò la sua fede e lo respinse: umiliato, il prefetto la denunciò come cristiana. Margherita fu incarcerata e venne visitata in cella dal demonio che le apparve sotto forma di drago e la inghiottì: ma Margherita, armata della croce, gli squarciò il ventre e uscì vittoriosa. Per questo motivo viene invocata per ottenere un parto facile. I temi della fertilità, del ventre e dell’attraversamento ci sono tutti anche se ricombinati, qua ci limitiamo ad aggiungere che se la caverna/ventre è simbolo femminile allora occuparlo (Alien e altri) vuol dire impedire la fertilità della razza umana. Come sempre nel mito la partita supera la cronaca locale e si fa cosmica.

E finalmente arriviamo a parlare del terzo protagonista, quel povero sfigato del Drago.

Legittimo proprietario, affittuario od occupante abusivo, è comunque il titolare della Caverna. Per sconfiggerlo, ci dicono le sante ma anche Frodo Baggins, Sigfrido, Perseo, Harry Potter e tanti altri, bisogna attraversarlo, con una spada o fisicamente. Anche in analisi la metafora tiene: accompagnati da un Mentore/Virgilio si affrontano le peggiori paure generate dal proprio inconscio. Ma la Caverna non è un luogo qualsiasi. Intanto è la connessione diretta, da immagine a immagine, tra la caverna di Platone e la sala cinematografica (L. Albano, 1992), che riconnette al sogno e ai più reconditi connotati della specie umana: essa ha il potere di rivelare i sensi inconfessati che legano il nostro presente al più lontano dimenticato passato.

Così quando Harry Potter scopre che sotto la sua scuola si apre una caverna immensa, scoprirà anche che nel recesso di questa si apre la Stanza dei Segreti e che a custodirla c’è un drago, che, ed è giusto che si sappia, è un dipendente della Pubblica Istruzione e per questo gli vengono versati regolari contributi. Bachelard ci ricorda che “abisso” non è il nome di un oggetto ma è un “aggettivo psichico” e come tale declinabile in base alle proprie personali esperienze (La terre et les réveries de la volonté).
In una caverna viene tenuta nascosta la vera identità di Batman e tutti i disturbi psicanalitici di Bruce Wayne…

E dal fondo di una caverna salta fuori il Mostro della Laguna Nera, così giusto per importunare un paio di persone intente a portare avanti un rito di fertilità privato (pensando ingenuamente di stare più tranquilli nella caverna che al parcheggio di Villa Borghese).

Il capitolo più lungo de I Miserabili di Hugo è dedicato alla fogna/caverna/ventre di Parigi. Questa deve attraversare in uno sforzo supremo Jean Valjean, recando sulle spalle il giovane amato da Cosetta per salvargli la vita.

Qua Valjean incontra il suo demone persecutore, l’ispettore di polizia Javert, che gli dà la caccia dall’inizio del romanzo. Qua Juvert comprende l’immensa umanità di Valjean e rinuncia ad arrestarlo, suicidandosi subito dopo per non aver adempiuto al suo dovere di poliziotto. Un dettaglio: la foto è di Nadar, a testimoniare il fascino e la fama che le fogne di Parigi, ma poi tutti i sotterrai di tutte le grandi città, esercitavano ed esercitano.
Quando poi non ci pensano scrittori, cinema, tradizioni religiose a narrare storie sulle caverne ci pensa l’epos popolare.

Non è strano dunque che nella fogna più celebre della modernità, quella di Nuova York, le leggende urbane vogliano che sia il luogo dove scorazzano alligatori albini e crescono i sorci più grandi del mondo. Mi dispiace deludere gli appassionati del genere ma il record, come documentato, non appartiene a Roma.
Ora il drago, povero figlio, non è cattivo in sé anche se spesso risulta un occupante abusivo, svolge invece alcune “funzioni narrative” necessarie per far procedere la storia. Una funzione è quella del Guardiano della Soglia (Vogler, Il viaggio dell’Eroe) ma su questa funzione torneremo più avanti. In questo momento ci interessa la funzione più antica, quella per cui bisogna entrare nelle fauci del drago e attraversarlo. E’ una morte rituale dove si muore lasciando una vecchia identità per risorgere a una nuova vita e a una identità nuova. Questo fa Giasone quando, mandato alla conquista del Vello d’Oro, deve, assistito da Athena entrare nel Drago custode.

Quello che entra è un ragazzo con seri e concreti problemi edipici (come del resto Edipo, Eracle, Perseo, Teseo, Romolo, Donald Duck, Pinocchio, Amleto…) e chi ne esce è l’Eroe destinato a compiere l’impresa.
Lo stesso vale per Gandalf ne Il signore degli anelli. Colui che precipita nell’abisso per proteggere gli amici in missione per salvare il mondo è Gandalf il Grigio, colui che ne torna è Gandalf il Bianco. E qua Obi Wan Kenobi del primo Stars Wars ripercorre passo per passo le funzioni narrative di Gandalf compresa quella di Mentore.

Come fa un altro eroe edipico, Pinocchio, che nel ventre del mostro marino ritrova il padre, la frase è sia letterale che metaforica, e finalmente si avvia a essere trasformato in bambino.

 

E’ evidente che dopo tutte queste storie il nome che si staglia con valore archetipico è quello di Giona, eroe profeta in perenne dissidio con il Dio Padre. Citato sia nella Bibbia che nei Vangeli, i suoi tre giorni nel ventre-caverna del mostro marino lo fanno diventare, per i primi cristiani perseguitati e catacombali, il simbolo del Cristo che non possono nominare pubblicamente senza essere arrestati.

Anche la figura di Giona si fa il suo percorso nei secoli e nelle culture con gli adattamenti del caso,

Nelle molteplici versioni delle peripezie di Giona ci sono discordanze nel finale. In una di queste Giona viene risputato dal pescione completamente glabro e possiamo ritenere che la perdita di tutti i peli lo rendesse bianco e splendente. In un’altra versione invece è dotato di folti capelli e di barba e il testo lo definisce “più saggio”. In entrambi i casi un cambiamento profondo. Ricordiamo qua, ancora dal primo Stars Wars, quando Luke Skywalker penetra nell’astronave per rubare i piani della Morte Nera e dopo il combattimento nella cavità coassiale della nave qua sotto illustrato.

Per sfuggire agli inseguitori si rifugia nella sentina che funziona da discarica della nave. La caverna cloaca dove si scaricano le deiezioni: il punto moralmente più basso visto che nello spazio alto e basso (come ha ben spiegato Kubrik in 2001, Odissea nello spazio) non esiste. Qua vive una creatura dotata di tentacoli che tira sotto l’acqua Luke e ce lo tiene fino a che non emergono più bolle d’aria e i suoi amici (con noi) lo credono morto. Poi Luke viene letteralmente catapultato fuori dall’acqua che letteralmente si rompe: colui il quale riemerge dà ordini inappellabili da vero eroe carismatico. La vera avventura comincia qua, da questa sequenza apparentemente senza importanza.
Apparentemente, perché in realtà quello a cui assistiamo e che riconosciamo senza sapere di conoscere, in vera anamnesi, è un rito di iniziazione e quindi un rito di passaggio.
Van Gennep distingue, nel rito di passaggio tra cui si collocano quelli di iniziazione, tre fasi: la separazione, la transizione e l’incorporazione. La prima fase, la separazione, delimita nettamente lo spazio e il tempo sacri dove avverrà il passaggio di stato da quelli profani o secolari. Non basta entrare in un tempio (e, al limite, non è neanche necessario), ci deve essere anche un rito che cambi la qualità di tempo portandolo fuori dal tempo della vita quotidiana. Questa fase implica un cambiamento: il noviziato per chi sta per cambiare il suo stato sociale (rasatura del cranio, divisa uguale per tutti e periodo al Centro Addestramento Reclute per tutti); un particolare passaggio dell’anno per le culture agricolo-contadine o per le religioni: il passaggio da un periodo di pace a uno di guerra. Nel corso di questo processo si ha una fase di transizione che Van Gennep (I riti di passaggio, Bollati Boringhieri) chiama “margine”, “limen” (dal latino soglia, limite) dove i soggetti attraversano un periodo di ambiguità sociale e psicologica in cui si perde l’identità precedente per acquisirne una nuova. In questa fase sono possibili riti cruenti, con perdita di sangue, che vanno dalla circoncisione alle cicatrici che attestano il nuovo rango

Non c’è differenza se i riti avvengono in Oceania, in Africa, o in film come Un uomo chiamato cavallo,

dove Richard Harris per passare dalla condizione di schiavo di guerra (costretto a fere il cavallo da trasporto) a membro della tribù, deve subire un’iniziazione dolorosa e sanguinosa. La stessa che si infliggevano, fino a non molti anni orsono, gli allievi delle accademie militari tedesche: la Mensur. Duelli di sciabola il cui fine era lasciare vistose cicatrici sul volto.

La terza fase, quella di “aggregazione” o “incorporazione” prevede il rientro nella società dei soggetti portatori di questa nuova identità che dona loro una collocazione certa nella vita collettiva. Di solito i giovani che tornano dai riti sono dipinti di bianco, a significare la loro morte sociale come adolescenti e la rinascita alla nuova vita. E’ frequente che acquisiscano un nuovo nome proprio o un nome che ne definisca l’ambito sociale. In Occidente vale per gli ordini militari come per quelli religiosi. Riassumendo in parole chiave abbiamo una soglia (limen) da passare, un luogo liminale, un “altrove”, un posto altro, interdetto ai più, perdita di qualcosa di sé (sangue ma anche credenze, illusioni o paure spicciole), imparare ad affrontare la propria più grande paura (di solito la paura della morte ma non è detto), la rinascita del sé in una nuova consapevolezza del mondo. Tutto questo, quello che abbiamo detto e visto, entra come materia prima nella scrittura di un film. Alcuni dei più venduti manuali hollywoodiani fanno esplicito riferimento alla struttura in tre atti, ai riti di iniziazione, alla zona liminale e alla riaggregazione finale. Esamineremo il più famoso di questi manuali nel prossimo percorso iconautico e, magari, confronteremo lo schema americano di sceneggiatura con quelli europei. Qua e ora vedremo insieme come tutto ciò diviene film pur mantenendo in sé la complessa articolazione simbolica, parlando di Ufficiale e gentiluomo, film del 1982 con Richard Gere, Debra Winger e Lou Gassett Jr.
Zack Mayo (Gere), un adolescente indisciplinato, orfano di madre morta suicida, non essendosi adattato alla vita del collegio nel quale vive, raggiunge il padre Byron. Quest’ultimo è un sergente maggiore di marina che vivacchia tra imbarchi, sbronze e frequentazioni di prostitute. Ottenuto il diploma Zack decide di diventare pilota d’aerei della marina e, dopo avere raccolto lo scetticismo e l’ironia del padre (basta come problema edipico?) sulle sue possibilità di farcela, parte per il corso di addestramento (luogo altro, dove entrano solo i selezionati). Giunto alla base insieme agli altri candidati fa la conoscenza del sergente Foley; un uomo duro che avverte subito che userà tutti i mezzi possibili per portare allo scoperto le debolezze degli aspiranti più deboli e meno idonei.

Durante il corso conosce Paula, una ragazza del posto con la quale inizia una relazione. Un venerdì mattina Foley (Gassett) scopre una infrazione di Zack e pretende il suo ritiro dal corso ma questi, deciso a resistere, viene sottoposto per tutto il fine settimana ad una durissima punizione, che lo cambierà profondamente.

Infatti il duro, menefreghista e cinico Zack rinuncerà a stabilire un record di percorso perché si fermerà ad aiutare una collega in difficoltà (comincia cioè a superare le sue paure e insicurezze). Questo per altro avviene dopo l’accusa a Zack, subìta dal sergente Foley, di non essere un commilitone interessato alla sorte degli altri compagni. Quando il corso entra nelle ultime tre settimane, Zack intende interrompere, anche se con qualche rammarico, il suo rapporto con Paula. Nel frattempo un amico scartato al corso si suicida e Zack, ritenendo il sergente Foley responsabile morale del suicidio dell’amico, si confronta con quest’ultimo nelle arti marziali. Nella Caverna più profonda, resa simbolicamente con la palestra, cioè il luogo dove i cadetti soffrono di più, un glabro e splendente Zack si confronta con la causa della sua attuale sofferenza, un uomo di colore che potrebbe essere suo padre, e simbolicamente con tutte le figure parentali.

Il sergente, seppure ammaccato, esce vincitore, impartendo l’ultima “lezione” al giovane. Una volta terminato il corso Zack ringrazia il sergente per averlo aiutato a crescere e maturare (a diventare, come Giona, più saggio) e, prima di partire per la sua nuova destinazione, si reca alla cartiera dove lavora Paula e, una volta compresa la sua umanità e la sua sincerità, la prende in braccio e la porta via con sé per iniziare una vita insieme.

Un nuovo Zack, più bianco, più splendente, cambiato nel suo rapporto col mondo e dotato del nuovo nome di “pilota di marina”, torna alla società e compie un rito di fertilità e di riaggregazione sposandosi e mettendo su famiglia. Chi sa se a Van Gennep il film sarebbe piaciuto, magari sì. Aristotele, secondo me, si sarebbe divertito.