Brevissima storia dell’uso delle immagini

di:
Luigi Ciorciolini

“Le immagini sono buone per confondere le idee e non per chiarirle”. Forte di questa convinzione Platone esclude gli artisti produttori di immagini dal suo Stato ideale, in quanto operatori di illusioni e nemici della verità. Se si pensa che neanche conosceva Barbara D’Urso e gli altri affannati agitatori dei pomeriggi televisivi, forse vale la pena di approfondire i termini della questione. D’altra parte stiamo parlando di qualcosa, l’immagine, che per sua natura è ambigua visto che è “qualcosa in sé” (per la sua componente fisica, che cade sotto i sensi di vista e tatto) e, allo stesso tempo, “qualcosa di altro da sé” (la componente raffigurata, vera o immaginaria che sia). Questa doppia anima non sfugge a Aristotele che però ne intravede l’aspetto insieme pratico e necessario nei processi di ragionamento: non ci sono dubbi che le immagini di triangoli e quadrati aiutino a sviluppare un pensiero logico come quello della geometria. Insomma, ci sarà pure un cielo rarefatto dei concetti incorporei ma linee, colori e volumi aiutano a ragionare meglio anche in filosofia.
Plinio il Vecchio, forse perché più interessato ai dati concreti che cadono sotto i sensi direttamente, pone alla base del ritratto la volontà di una giovane donna di conservare l’immagine del suo amato in procinto di partire: scolpita o dipinta l’immagine è figlia di Nostalgia. L’immagine nasce, secondo Plinio, per sostituire, ricordare e far sospirare. Noi epigoni concordiamo e aggiungiamo, alla luce di quanto si leggerà poco più avanti, che l’immagine sarà madre di molti altri sentimenti declinati a specchio sulla più intima essenza umana.
Un dibattito destinato a continuare nei secoli, per cui rimandiamo a pubblicazioni specializzate. Qua ci limitiamo a citare l’uso strategico delle immagini fatto da Augusto. Arrivato al potere, Augusto si propose e ottenne nei fatti un sostanziale rinnovamento della mentalità collettiva. Ai fasti celebrativi dei generali oppose il culto del sovrano eletto dagli dei; allo scandalo del lusso privato, un programma di grandiose opere pubbliche; all’indifferenza religiosa e all’immoralità, una campagna di rinnovamento religioso e morale (pietas e mores). Nel perseguire il suo progetto, Augusto crea un nuovo linguaggio visivo e fa di Roma il supporto di un mondo di immagini che rimandano ad ambienti idilliaci e bucolici di una età dell’oro mai esistita.

A sostegno delle immagini, vengono chiamati i poeti più amati e tra questi Virgilio che con Eneide, Bucoliche e Georgiche, fisserà il canone della visione del mondo augusteo fino al Neoclassicismo. Insomma, con grande senso pratico, Augusto usa le immagini (integrate da altri strumenti della comunicazione come i rituali pubblici e la poesia) per la loro possibilità di comunicare a tutti, anche ai più semplici o indifferenti, per creare una nuova cultura e con essa una nuova visione del mondo. Un successivo Ventennio tenterà la stessa operazione con il travertino e il cinema e uno ancora successivo con la televisione: le immagini hanno davvero un loro potere di convincimento.

Il dibattito sulle immagini, sul loro potere e sulle modalità del loro uso prosegue per i secoli successivi vedendo impegnati menti del calibro di Tommaso d’Aquino, Agostino di Ippona, Gregorio Magno, Clemente Alessandrino, Origene, Lattanzio… Solo per citare alla rinfusa. Per i Padri e per le migliori menti di quei secoli non si tratta di un argomento secondario da trattare con leggerezza. Nel 787, sotto la pressione degli Arabi che hanno conquistato in Medio Oriente, il Nord Africa e la Spagna, viene convocato il Secondo Concilio di Nicea per risolvere il conflitto con la violenta corrente iconoclasta che scuote l’Occidente cristiano. Si deciderà che quanto di utile, di terapeutico, di edificante, di consolatorio e di terrificante, contenuto nelle immagini può e deve essere usato per comunicare il Vangelo a tutti, in particolare a coloro che non sono in grado di leggere: “… che tutti gli uomini ignoranti e incapaci di leggere vedano le storie del Vangelo, e attraverso esse siano condotti a glorificare e a ricordare la dispensazione della carne del re e Signore nostro Gesù Cristo”. Lo statuto dell’immagine per l’Occidente cristiano è posto e da allora: nonostante la secolarizzazione e la commercializzazione dell’uso delle immagini, la via seguita da ogni tipo di immagine è riconducibile a Nicea.

Ancora Tommaso d’Aquino preciserà, a proposito di Nicea, che c’era: “…una triplice ragione per l’istituzione delle immagini nella chiesa; primo, per istruire gli analfabeti che possono imparare da esse come dai libri; secondo in modo che il mistero dell’incarnazione e gli esempi dei santi possano rimanere più saldamente nelle nostre memorie grazie alla loro rappresentazione davanti ai nostri occhi; terzo, per suscitare le emozioni, che sono più efficacemente sollecitate da ciò che si vede piuttosto che da quello che si sente”.

Dunque, se è possibile riassumere in estrema e brutale sintesi secoli di dibattito, il problema verte sulla liceità di fare immagini, su cosa queste debbano veicolare e, in ultimo, sulla modalità del loro uso. Nessuno mette in dubbio il loro potere di dialogare con l’essere umano e di coinvolgerne ragione e immaginario a diversi livelli. Nel 1924 Ernst Cassirer dimostra magistralmente che Platone è sempre ritornato nell’inaggirabile rapporto tra idea (eidos) e immagine (eidolon), rapporto fondato sulla comune radice vedere (idein). Nel saggio il filosofo afferma, reindirizzando la discussione nel secolo breve, che le immagini non sono obnubilamento della vera conoscenza delle idee e neanche una corruzione di questa ma che il far ricorso alle immagini è l’unico, inevitabile modo che abbiamo per accostarci imperfettamente alla trascendenza della loro natura. Come si esplicita al massimo grado in geometria ma vale per ogni ambito del sapere, compresa la filosofia, fintantoché siamo vivi e siamo psychè in un soma, il nostro vedere intellegibile passa per il vedere sensibile, il nostro spirito vede attraverso gli occhi del corpo. In altre parole, le immagini istaurano un processo cognitivo col mondo e che non è possibile pensare senza immagini. Questa consapevolezza, anche se tiene conto delle esperienze delle avanguardie artistiche, armonizza quanto esplicitato da Aristotele (De anima; De memoria et reminiscentia) con l’assunto più profondo del Concilio di Nicea II (Niceforo: “Se si sopprime l’immagine, non è il Cristo ma l’universo intero che scompare” e con il programma di comunicazione uscito dal Concilio di Trento.

Oggi possiamo dire che ogni epoca ha la sua rappresentazione dello spazio. Anche questa è un’affermazione semplice che si risolve in poche parole, sono le sue conseguenze però che creano la necessità di qualche ragionamento ulteriore. Il primo è che evidentemente ci sono diversi modi di rappresentare lo spazio e che quello ritenuto il più importante per noi, quello che prevede l’uso della prospettiva, non è il sistema razionale più di ogni altro conforme alla struttura della spirito umano; il secondo è che non rappresenta un passo compiuto dall’umanità sulla via della sempre più giusta rappresentazione del mondo esterno su una superficie piana bidimensionale; il terzo è che c’è un contenuto convenzionale che risente dalla tecnologia dell’epoca, dalle possibilità scientifiche e dall’organizzazione sociale del mondo. Se a quanto detto aggiungiamo il valore simbolico della rappresentazione dello spazio e quello psicologico cominciamo a renderci conto della vastità dell’argomento e delle sue declinazioni.

“Noi siamo degli esseri guardati, nello spettacolo del mondo” dice Lacan ed è difficile dargli torto, in special modo perché riporta tra noi la figura dell’onnivedente di Nicola da Cusa a proposito delle raffigurazioni che sembrano inseguire con lo sguardo lo spettatore (Manlio Brusatin, Storia delle linee, Einaudi, Torino, 1993). Come si è detto da più parti viviamo nell’età dell’immagine perché mai prima nella storia del mondo le immani erano state tante e così pervasive di ogni angolo della sfera umana, dal pubblico al privato e al privatissimo. Noi siamo, volenti o nolenti, continuamente sollecitati dalle immagini e siamo chiamati a decrittarle e comprenderle prima che a farle. Nel percorso attraverso i secoli che abbiamo appena fatto c’è un filo che tiene insieme tutti, siano essi a favore o contrari all’uso delle immagini, iconoduli o iconoclasti che fossero: ci sono forme che noi riconosciamo anche se le vediamo per la prima volta. Possiamo chiamarle forme simboliche come Cassirer e Panofsky, archetipi come Jung, immagini profonde come Durand, strutture o formule del pathos … Le riconosciamo perché in queste ci specchiamo e, come ci dice la neuroscienza, ci specchiamo con tutti i sensi. Quando guardiamo ci guardiamo, le immagini ci riguardano, con costanti universali. Per questo nell’antichità si diceva che le statue e i dipinti ci “guardassero”, e la tecnica pittorica di tenere gli occhi distanti tra loro e leggermente divergenti, dava l’illusione che dovunque ci si spostasse lo sguardo ci seguisse scrutandoci. Questi ritratti, che oggi definiremmo primi piani, avevano e hanno una forza misteriosa: una forza che li faceva velare la notte perché considerati la soglia di un altrove inquietante.

Oggi a guardarci, fissando direttamente dalla telecamera, ci sono anche politici, profughi, conduttori di telegiornale, manifesti pubblicitari, imbonitori.

 

Ciò che si muove (o sembra muoversi) è vivo. Questo è il paradigma mitico su cui si fonda la reputazione di magia che accompagna immagini e artisti. Vedremo più avanti come questa eredità continui a lavorare anche oggi, ora, dopo la galleria di ritratti appena vista, tocchiamo il punto della credenza diffusa ovunque nel mondo dell’identità reale tra immagine raffigurante e persona raffigurata. In una declinazione di questa credenza (Ernst Kris, Otto Kurz, La leggenda dell’artista, Bollati Boringhieri, Torino, 1980) l’immagine è, come in quelle del Fayun, l’equivalente sostitutivo di un individuo morto, lontano e comunque assente. Ricordiamo che gli antichi Romani di un certo rango partecipavano alle cerimonie pubbliche recando i ritratti degli antenati, le imagines maiorum, a testimoniare insieme l’importanza della famiglia e il gioco di squadra fatto da Lari e Penati. L’immagine può portare con sé lo spirito della persona raffigurata: noi sappiamo che non è vero ma i nostri neuroni specchio ci dicono che un ritratto in primo piano che ti segue con gli occhi ovunque ti muovi in una stanza, anche oggi un certo effetto lo fa. Il fascino dell’immagine che ci guarda dritta negli occhi, in una inquadratura che oggi definiamo soggettiva, viene dunque da molto lontano ed ha sempre esercitato un fascino magnetico. André Bazin, uno tra i principali maestri della critica cinematografica mondiale, riflette in questo saggio datato 1945 sullo specifico fotografico, ovvero l’insieme delle qualità intrinseche dell’immagine su celluloide che estende senza forzature al cinema, per ovvi motivi diretto erede della fotografia stessa.

Bazin parte affrontando la pratica dell’imbalsamazione come punto fermo nello sviluppo delle arti plastiche e introduce l’affascinante concetto di complesso della mummia con un’analisi della psicologia della razza umana, razza tendenzialmente votata alla difesa contro il tempo, si pensi a questo proposito alle elaborate pratiche funebri della civiltà egizia, non soltanto ai cadaveri mummificati ma anche alle numerose statue poste a guardia del feretro nelle piramidi.
Attraverso la difesa dell’apparenza carnale, in antitesi con la decadenza fisica successiva alla morte, l’uomo è riuscito a ricondurre l’essere alla vita, strappandolo al flusso della durata. La funzione primordiale della statua stessa è quella di sostituire la fisicità evanescente dell’essere umano, salvare quindi l’essere mediante l’apparenza.
L’evoluzione di arte e civiltà ha portato con sé una liberazione delle arti plastiche dalla funzione magica in senso stretto; si perde l’identità ontologica del modello ma persino il pensiero logico e razionale sublima il bisogno di esorcizzare il tempo, se non altro utilizzando ritratti e modelli come ricordo del defunto e scongiurandone ad ogni modo una seconda morte spirituale.
La fabbricazione dell’immagine perde tuttavia anche i crismi antropocentrici attraverso uno slittamento della riproduzione da mera sopravvivenza dell’uomo ad una realtà di secondo grado, universo per certi versi autonomo e ideale. La vanità della rappresentazione a questo punto supera il bisogno primitivo del genere umano di aver ragione del tempo attraverso la perennità della forma.
Bazin pone dunque l’accento non tanto sull’estetica delle arti plastiche, quanto sulla loro psicologia, su una psicanalisi della forma e quindi sulla rassomiglianza con il modello e sul concetto di realismo (A. Bazin, Ontologia dell’immagine fotografica, in Che cos’è il cinema?, a cura di A. Aprà, Garzanti, Milano, 1973).

Lo sguardo umano sul mondo è lo sguardo come strumento d’indagine, come processo cognitivo e come presa di possesso. In questo senso Dürer e Alberti parlano dell’intuizione prospettica dello spazio là dove l’intero quadro (per noi l’inquadratura) si trasforma in una “finestra” attraverso la quale non si vedono solo delle cose ma il tutto si trasferisce in un piano figurativo in cui si proietta uno spazio unitario, dove le cose sono in rapporto tra loro. Si parla quindi di una ‘messa in inquadratura’ che comunica un senso del mondo e lo comunica attraverso i rapporti che si instaurano tra i soggetti rappresentati. La camera con le sue ottiche ci consente non solo di indagare il mondo ma anche, contemporaneamente, di indagare la mente umana che in quel mondo si specchia: da come è a come sono io.

Veniamo finalmente al senso di questo testo: quanto detto ci consente di affermare che chi vuole confrontarsi con le immagini e si pone la finalità di “convincere” il destinatario finale della sua opera deve considerare le immagini come atti comunicativi performativi, Questo vuol dire che nell’elaborazione di un’immagine, qualsiasi sia il supporto tecnico che si usa, l’intenzionalità di comportamento deve rapportarsi con delle regole: c’è un “cosa” (l’atto performativo in sé) e c’è un “come” (il rapporto con le regole e con il destinatario dell’atto). L’intenzione di questo testo è quella di esplicitare tutto questo.
Questo scritto si propone come strumento pratico di gestione delle inquadrature e, non avendo il compito di fare filosofia, deve seguire alcune indicazioni: essere chiaro, le sue affermazioni devono essere facilmente riscontrabili e deve, infine, essere utile. Per raggiungere questi obiettivi vale la pena di mettere dei punti certi. Il primo tra questi è che è la tecnologia di un’epoca a determinarne i linguaggi che si modificano al modificarsi della stessa. E’ successo per la pittura quando c’è stata l’irruzione della fotografia, è successo alla fotografia all’affermarsi del cinema, è successo al cinema di fronte al nuovo dominio instaurato dalla televisione. Ogni nuovo linguaggio nell’esplorare le potenzialità nuove porta con sé qualcosa dei linguaggi precedenti rielaborandoli, perché per l’uomo nulla si crea dal nulla, ma mantenendo comunque delle costanti che vengono traghettate nel nuovo. Il secondo è che parliamo pur sempre di una raffigurazione spaziale su una superficie planare bidimensionale (lo schermo del televisore o del computer) che deve creare una illusione di realtà.

Lo spazio dunque non è neutro ed è un potente veicolo di comunicazione e, per restare nell’assunto di questa opera, è arrivato il momento di vedere come si organizza all’interno di una inquadratura e quali sono le regole per farlo.

 


Piccola bibliografia

A cura di A. Pinotti; A. Somaini, Teorie dell’immagine, Raffaello Cortina, Milano, 2009.
Platone, Repubblica.
Aristotele, De Anima.
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A cura di Luigi Russo, Vedere l’invisibile, Nicea e lo statuto dell’immagine, Aesthetica, Palermo, 1997.
David Freedberg, Il potere delle immagini, Einaudi, Torino, 1989.
Ernst Cassirer, Eidos ed eidolon, (1924), Raffaello Cortina, Milano, 2009.
Horst Bredekamp, Immagini che ci guardano, Raffaello Cortina, Milano, 2015.
Maurizio Vitta, Il sistema delle immagini, Liguori, Napoli, 1999.
Régis Debray, Vita e morte dell’immagine, Il Castoro, Milano, 1999.
Jacques Lacan, Il seminario – Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicanalisi, Edition du seuil, Parigi, 1973.
Ernst H. Gombrich, Aby Warburg, Una biografia intellettuale, Feltrinelli, 2003.
A. Bazin, Ontologia dell’immagine fotografica, in Che cos’è il cinema?, a cura di A. Aprà, Garzanti, Milano, 1973.