Woody Allen

di:
Giuseppe Sansonna

“Tutti, in fondo, conosciamo la stessa verità: si deve morire, un giorno. La nostra vita, in fondo, consiste in come scegliamo di distorcere questa verità”.

A confessarlo a se stesso è un Woody Allen sessantenne, sul lettino dello psicanalista, zattera indispensabile per circumnavigare all’infinito l’amata Manhattan.

È una dichiarazione di poetica secca, inserita a tradimento nel cuore di Deconstructing Harry, film del 1997.

Harry a pezzi è l’efficace traduzione italiana del titolo, di un’opera rivelatrice della filosofia alleniana. Della sua smania di inventarsi frammenti di vita immaginaria, per reagire alla caducità della vita.

Un pensiero apparentemente debole, eppure inesausto, capace di attraversare epoche e stagioni sul volto e sul corpo del suo protagonista. Procedendo per aforismi in forma di sketches, scandendo l’eterno ritorno della stessa maschera, occhialuta e pensosa, quietamente scettica. Percepibile anche quando non è in scena, perché sublimata nei tanti alter ego.

Harry a pezzi presenta una radicalità più aspra, rispetto alla filmografia che lo precede, e a quella che lo seguirà.

Woody Allen è Harry Block, scrittore in piena crisi creativa, dal cognome fin troppo indicativo.

Appare nudo, smembrato in molti doppi, come l’attore Robin Williams, allontanato dal set perché resiste a qualsiasi messa a fuoco. Rimanendo flou, evanescente anche per i familiari.

Come in una versione hard de Il posto delle fragole, Allen si mostra turpiloquiante, a tratti brutale, sessualmente compulsivo, disinteressato ad alibi sentimentali e renitente a qualsiasi morale. Un altro suo doppio è Stanley Tucci, sposato con una Demi Moore che ringrazia il divino anche prima di una fellatio.

I troppi pezzi di Woody non si incastrano mai, nevrotizzati ulteriormente da un montaggio pieno di jumpcut, alla Godard.

Fremono tra “cinismo, nichilismo, sarcasmo e orgasmo”, incerti se ricomporsi nel solito Everyman fallimentare ed esilarante, indeciso a tutto. O nella sua metà oscura, il negromante che cannibalizza il prossimo, succhiandone le fragilità per trasformarle in oro narrativo.

In quel periodo, nella vita reale, Allen ha appena sposato Soon-Yi, ventenne figlia adottiva di Mia Farrow, a lungo compagna e musa artistica del regista.

Il dramma domestico sembra riemergere nel film. Sua moglie, un’eccelsa Kirstie Alley, è una psicoterapeuta. Scoperta una relazione del marito con una sua giovane paziente, esplode di rabbia. Block, messo alle strette, ammette l’adulterio, rilanciando: “Chi altro incontro, io? Vivo qui, lavoro in questa stanza, abbiamo il bambino, tu sei sempre là ad esercitare. Non vediamo mai nessuno”.

Allen porta all’estremo il suo imperativo categorico: rovesciare l’inerzia della vita a degenerare in tragedia greca, sgambettandola. Trasformandola in una gag, per esorcizzare la sofferenza, propria e del prossimo, e farne materia da slapstick, carne da motto di spirito.

Una terapia personale, che Woody segueda quando era un fulvo ragazzino di Brooklyn, nato da una modesta famiglia della comunità ebraica. Mai del tutto convinto dalle restrizioni della disciplina scolastica e religiosa, si è lasciato subito tentare dall’immediatezza leggera dei fumetti, degli eroi evocativi della radio, dalla passione esaltante dello sport. La sacralità della religione e della cultura tradizionale, per lui, meritava soloun’occhiata di sbieco, rapida e laica. Utile a coglierne rapidamente le contraddizioni, e farne materia per futuri copioni comici.

Forse Allen ha sempre creduto solo nel movimento perpetuo della sua creatività. Quel talento che, giocato in forme diverse nelle varie stagioni della vita, prima ti salva dal binario di un destino sociale segnato, poi ti rende un genio compreso e consacrato su scala planetaria.

Quindi, in età matura, ti consacra venerato maestro. Consentendoti di adagiarti sulla maniera di te stesso, infilando lussuose star in raffinati spot turistici delle principali capitali europee. Regalando, qua e là, graffi d’autore, omaggi alla tua gloriosa storia.

Rimanere a galla, cogliendo la mutazione di epoche e contesti: anche questa è maestrìa. Del resto, solo diciassettenne, Allen scriveva già battute da dare in pasto a colossi dello spettacolo come Ed Sullivan e Sid Caesar. A diciannove anni era già ricchissimo, ma non ancora celebre. Non aveva ancor cominciato a diventare un fumetto vivente, icona e fulcro della smisurata autobiografia immaginaria a venire. A partire dal 1964 intercetta il grande pubblico con le sue prime commedie, successi eclatanti come Don’t drink the water e Play it again, Sam.

Nel 1969 arriva il momento di farsi uno e trino, al di là e al di qua della macchina da presa, nella triplice veste di regista, autore e interprete. Il suo esordio è memorabile: Take the money and run. Prendi i soldi e scappa: Allen, con la rapidità dell’illusionista, altra sua vocazione sotterranea e mai abbandonata, coglie profeticamente le derive demenziali della televisione. Un medium che conosce molto bene, descritto come “la grande discarica degli americani”. Nel film,Woody è un rapinatore principiante, recluso in carcere a più riprese per manifesta incapacità. Ad ogni arresto, la televisione intervista implacabilmente i genitori dell’aspirante criminale. I due, timidi, autobiografici, negozianti ebrei del Low East, cercano di proteggere decoro e privacy, parlando senza mostrare il volto. La tv del dolore, attraverso il filtro di Allen, mostra subito il suo lato grottesco: i due parlano del loro rimorso per quel figlio degenere, nascosti dietro occhiali spessi, nasone e baffi alla Groucho Marx.

Allen sembra avere una sua missione: compensare l’inadeguatezza della vita rimasticando l’umorismo yiddish ed esorcizzando lo schlemihl, la vittima degli eventi che si porta dentro, eredità della tradizione ebraica. Pareggiare i conti con la vita: così si potrebbe provare a restituire l’espressione americana Getting even, titolo del suo primo libro di racconti e monologhi, pubblicato nel 1971. Verrà invece tradotto con Saperla lunga e nella prefazione Umberto Eco scriverà che il personaggio costruito da Woody Allen è un paradossale sintomo della contemporaneità, “prigioniero dei propri miti intellettuali e delle proprie frustrazioni, lenite appunto dal vivere sempre dentro una continua citazione”.

L’opera di Allen, nei decenni, ha esteso il mid cult ad un pubblico sempre più vasto, slittando fluidamente su diversi livelli di lettura, anticipandoil genio di Matt Groening e diventando il più intensamente pop, il più pervasivo dei postmoderni. Molti anni prima di Quentin Tarantino, che nei feticci e nelle mitologie del cinema crederà sempre fino in fondo, sacralizzandone codici e linguaggi, rielaborandoli con l’intensità amorosa di un bambino eterno. Allen, invece, non sembra incantato da nulla.

Forse nemmeno dai suoi amati maestri, come Bergman e Fellini. Li cita saccheggiandoli, forte del suo unico, dichiarato rimpianto esistenziale: “quello di non essere qualcun altro”. E allora, come il suo geniale Zelig, replica osmoticamente i suoi idoli.  Da divulgatore ironico, ne fa acute parodie, rendendoli più fruibili, meno estremi. In un racconto di Saperla lunga strappa persino la Morte, con tanto di falce e mantello, al bianco e nero metafisico, bergmaniano. La riduce ad una apprendista mietitrice, impacciata fattorina porta a porta. La sua vittima designata, un imprenditore delle confezioni panciuto e calvo, la rispedisce al mittente, battendola al gioco. Senza nemmeno ricorrere a scacchiere allegoriche, come quella di Max Von Sydow, austero cavaliere del Settimo sigillo bergmaniano: basta un semplice, prosaico ramino.

Del resto, la frase “Dio è morto, Marx pure, e anche io non mi sento tanto bene” è considerata da sempre la summa della poetica di Woody. In realtà è una frase di Eugene Ionesco, maestro novecentesco dell’assurdo. Un dato indicativo: Allen, dietro la sua aria mite, apparentemente fragile, ha cannibalizzato con sapienza l’era contemporanea, rigurgitandola a tocchi.

Non c’è mito che resista, al filtro dei suoi occhiali.

Persino quando maneggia il machismo hard boiled di Humphrey Bogart, quella malinconia tutta Bourbon, trench, voce roca e tabacco rollato, Allen offre la sensazione di non aver mai creduto al suo carisma. Intravedendo il retrogusto comico, caricaturale, anche nei falconi maltesi, nei grandi sonni e nelle regine d’Africa. E forse, per lui, persino Hemingway era solo un corpulento bevitore, favorito dall’aver vissuto troppo, sopravvalutato abusatore della paratassi.

Allen sembra credere con molte riserve alla scienza e alla politica; men che meno alla cultura e alla religione. Ma non è neppure un nicciano: non ha nessuna voglia di sanguinare di nostalgia, per ciò che è assente. È un dissacratore, ma non come il Buñuel ateo per paradosso, grazie a Dio. Altro suo mito, che Allen voleva ingaggiare per Annie Hall, nella parte di se stesso. Ma Buñuel non si lascia ridurre a figurina da gag, e non ama la satira socialmente accettabile di Allen. Declina l’offerta, e il cameo tocca al profeta dei nuovi media Marshall Mc Luhan, più adatto a sbucare dal cartellone di un cinema e smentire un professore trombone, che pontifica su di lui.

Woody ha preferito svelare all’infinito che ogni re è nudo, ogni religione strumentale e che quando l’uomo crede di pensare c’è sempre un dio beffardo che se la ride. Oppure, bene che vada, siamo soli nell’universo. E allora non resta che consolarsi con l’ironia, sorseggiando poesia e buona musica. Oscillando fra il sesso compulsivo e sofferenze amorose, annegando la depressione nei film, da fare o da vedere. Eludendo la tentazione del suicidio per la solita maldestrezza, mista a ripensamenti in extremis. Finendo a sedare l’angoscia sulla poltrona di un cinema, davanti all’inossidabile vitalismo dei Fratelli Marx, come in una sequenza di Hannah e le sue sorelle.

Per poi ricominciare da capo. Fino all’ultima inquadratura, alla dissolvenza finale, ai titoli di coda.

fonte: www.linus.net – aprile 2020