L’urlo di Artaud terrorizza anche l’occidente

di:
Giuseppe Sansonna

Guizza sullo schermo, Bruce Lee.

Il corpo minuto, scintillante di sudore, è percorso da muscoli che corrono sotto pelle, come serpenti. I passetti sono agili, da ballerino di cha cha cha che è stato, in una delle tante vite, compresse in un’esistenza fulminante.

Nella scena madre de L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente, sta danzando intorno ad uno scimmiesco Chuck Norris, all’esordio cinematografico. Lee saltella a guardia bassa, come l’adorato Mohammed Ali, a cui vuole rubare l’aura di mito universale. Campione di karate statunitense, nel film e nella vita, Norris è stato assoldato da un clan mafioso per uccidere Lee, ragazzo arrivato da Hong Kong per difendere suo zio, proprietario di un ristorante, dalle vessazioni della malavita locale.

Bruce e Chuck si ritrovano metafisicamente soli, in un Colosseo deserto, dechirichiano, ricostruito a Hong Kong, a parte qualche reale ripresa esterna. Rubata in fretta e furia, perché la produzione non poteva permettersi di affittare l’Anfiteatro Flavio.

Amici per la pelle fuori dal set, Lee e Norris si battono in scena come gladiatori postmoderni, sotto lo sguardo perplesso di un gattino, unico spettatore. Sfiorarsi il naso con il pollice, per Lee, è un rito umoristico, il preludio quasi infantile alla sequenza di colpi letali e calci aerei pieni di grazia, da Nureyev artaudiano. Il Kiai, urlo ancestrale che gela il sangue, scandisce la danza macabra di un uomo in rivolta. Strappa i peli dal petto villoso del suo avversario, ne frattura gli arti, e lo finisce spezzandogli il collo. Dopo averlo ucciso, però, sembra colto da un soprassalto di pietas. Depone, con rituale rispetto, il kimono e la cintura nera dell’avversario sul suo corpo esanime.

Mentre si lascia alle spalle il Colosseo, ancora assetato di vendetta, Bruce Lee, sembra esplodere di vita, come un eroe epico e invulnerabile. Eppure è già morto da un anno, mentre sfavilla sul telo un po’ logoro del Cinema Ariston, a Campobasso, provincia remota del sud italiano. È una fredda sera di metà gennaio del 1974: giù in platea, eccitati tra le sedie di legno, i ragazzini campobassani sono irretiti dal loro nuovo idolo, che ha già perso consistenza terrena, per entrare nel mito. Bruce Lee si è misteriosamente addormentato l’anno prima, nel luglio del 1973, nel suo corpo da semidio trentenne. Aveva girato L’urlo di Chen nella primavera del 1972: come una leggenda ancora in crisalide, vagava per Roma da totale sconosciuto, nell’indifferenza generale. Forse le pensava veramente, le battute che mette in bocca al suo personaggio, sullo spreco d’acqua delle fontane romane, che in Cina avrebbero riempito centinaia di risaie. Chissà se condivideva davvero anche lo scetticismo antiumanista, iconoclasta di Chen, davanti al culto turistico dei ruderi: “Non mi piacciono le rovine, mi ricordano la guerra”. Di certo, con il suo primo e unico film da regista di se stesso, mostra di avere una precisa consapevolezza del proprio corpo cinematografico, e la capacità di percepirsi al di là e al di qua della macchina da presa. Il duello del Colosseo, che richiese tre giorni di riprese e venti pagine di storyboard, disegnate di sua mano, diventò subito una sequenza mitologica. Oggetto di un culto che dura tuttora, fluttuando nel web.

Tra gli spettatori estasiati e giovanissimi del cinema Ariston, ce n’è uno, Leopoldo Santovincenzo, che passerà all’età adulta senza perdere l’incanto infantile. Diventerà amoroso custode di mondi immaginari, e di memorie autenticamente trasfigurate, sospese tra libri, fumetti e tanto cinema. Confluite nel libro La balena di Piazza Savoia, pubblicato da Exòrma nel 2017. Di quella sera di gennaio del’74, Santovincenzo ricorda anche un’audace operazione di marketing del cinema Ariston, sintomo del travolgente successo di Bruce Lee: la vendita alla cassa di nunchaku di plastica, bastoni rotanti, modellati su quelli usati da Chen nel film. Il nunchakun, in origine, è uno strumento dei contadini cinesi, adibito alla battitura del grano. Successivamente, i giapponesi di Okinawa lo trasformano in un’arma proletaria, di autodifesa. Perde la “n” finale, acquistando una forte connotazione simbolica, di classe, in opposizione alle raffinatissime lame forgiate per la casta dei samurai. Un oggetto che attira subito giovani e giovinastri campobassani; come molti italiani del sud, hanno però un modo controverso di arrendersi alle colonizzazioni culturali: fagocitano l’esotico che li invade, ricodificandolo, per assimilarlo. I nunchaku, a Campobasso, vanno a ruba, ma vengono ribattezzati mazzarelle. Esaurito rapidamente l’articolo, in molti decidono di fabbricarlo da sé, rifornendosi dal ferramenta ed esibendo notevole perizia artigianale. Prima viene segato in due un manico di scopa, poi bastano due ganci legati da una catenella, per roteare all’infinito, davanti allo specchio, la propria mazzarella. Con qualche imprevisto: non sono rari i colpi sulla spalla, sotto il mento o dietro la nuca. Gli ematomi autoinflitti non spengono però l’entusiasmo popolare, che sta contagiando anche il resto d’Italia. La smania di emulare Bruce Lee è particolarmente viva, come ricorda Santovincenzo, soprattutto nel centro storico, molto proletario, di Campobasso. I suoi abitanti prendono il nome dalla sua main street, Via S. Antonio Abate. I santantunari portano il nunchaku fatto in casa infilato nella cinta, sotto la maglietta, “aggirandosi nelle strade buie con la faccia feroce, in cerca di risse”. Ma si tratta spesso di pura apparenza, esibizione di una violenza più inscenata che reale. È solo un segno che il film di mazzate, così lo chiamano nel Sud Italia, è ormai entrato nell’immaginario popolare. Portando con sé una febbre di massa testimoniata dalle riviste, dal merchandising, dall’affollarsi delle palestre dedicate alle arti marziali. Una fiammata intensa, ma molto breve. La prima scintilla, ad essere precisi, non coincide con l’ingresso in scena di Bruce Lee, ma con l’uscita in Italia di Cinque dita di violenza, all’inizio del 1973. Il film di Chang-hwa Jeong impazza in molte sale della penisola. Tra marzo e dicembre dello stesso anno escono anche i tre film di ambientazione orientale di Bruce Lee: Dalla Cina con furore, Il Furore della Cina colpisce ancora, e I tre dell’operazione Drago. Rappresentano il punto d’incandescenza del fenomeno, e forse anche il suo esito cinematograficamente più rilevante. Nell’agosto dello stesso anno, un mese dopo la morte di Bruce Lee, i film di arti marziali circolanti sul mercato italiano sono una trentina. Durante l’intervallo, un po’ ovunque, nei cinema italiani, coppie di ragazzini salgono sul palco, imitando le mosse di kung fu appena viste sul grande schermo, incitati con tifo da stadio dagli amici rimasti in platea. La smania per Bruce Lee e affini non è solo un fenomeno periferico: a Roma i film di kung fu vengono proiettati in lussuose e affollatissime sale centrali come il Brancaccio, il Rex, il Capranica, il Rouge et noir, il Paris e l’Ambassade.

Dopo soli due anni, in pieno 1975, il genere raggiunge l’apice del successo. Contemporaneamente, comincia una vertiginosa discesa. Nelle provincie italiane i film di kung fu continueranno a circolare fino al 1984. Si tratterà per lo più di fondi di magazzino, interpretati a volte da epigoni di Bruce Lee sbiaditi e scadenti, accolti dal pubblico con crescente indifferenza.

Nel corso della sua breve vita nelle sale italiane, il cinema delle arti marziali ha fatto in tempo a diventare un ampio calderone esoticheggiante, in cui spregiudicati noleggiatori facevano entrare di tutto, senza eccessive remore filologiche. I wuxiapian, ad esempio, erano storie sui cavalieri erranti derivate dai romanzi cavallereschi cinesi. Tra i loro protagonisti ricorrenti figuravano spadaccini solitari, fedeli a un codice d’onore, e votati al sacrificio. A cavallo tra anni Sessanta e Settanta, i wuxiapian cambiano bruscamente: cominciano ad essere girati a colori, in cinemascope, con eroi marcatamente individualisti e nuove, efferate tecniche di combattimento.

Un’evoluzione che, secondo gli storici del cinema cinese, è frutto dell’influenza dei chanbara giapponesi, film sui samurai solitari, e dei western italiani, amatissimi in estremo oriente. I nuovi wuxia sono ostentatamente violenti, come gli spaghetti western, eppure permeati da una morbosa elegia dell’amicizia virile. Pieni di accorati monologhi sul tradimento di fedeli compagni d’armi, e di uomini in lacrime davanti alla morte di amici intimi, vengono infilati a tradimento, dai distributori italiani, tra i film di kung fu.

Il romanticismo favolistico in costume d’epoca e, soprattutto, la costante tensione omoerotica di questi film, mettono però a disagio le platee popolari mediterranee, e il loro macismo endemico. Un imbarazzo esorcizzato in sala a colpi di sarcasmo, riservato anche agli eccessi da film fantasy del wuxia, ovvero alle armi bizzarre, ai salti iperbolici, e alle levitazioni. Era un pubblico ancora inebriato da Sergio Leone, che aveva esordito plagiando e rielaborando genialmente i samurai di Kurosawa, vestendoli da bounty killer. Trascinandoli nella polvere di un West ricreato in Almeria, somigliante più al sud italiano che alla Monument Valley. Privato di epica della frontiera e riempito di fatale verismo, tra le case bianche, i volti incarogniti, sudati e ghignanti, di un mondo più vicino alle pagine di Giovanni Verga che ai campi lunghi di John Ford. Un universo cupo e assolato, immerso in una darwiniana lotta per la vita, pieno di duelli rusticani a colpi di colt. Con in palio solo pugni di dollari, agognati come la roba di Mazzarò. Un immaginario senza nessuna palingenesi possibile: per rivoluzionarlo, ci voleva l’ingresso in scena di Bruce Lee. Di quell’alieno stupefacente, piovuto da un Oriente lontano, ma portatore di una violenza concreta, dal retrogusto familiare, vicino alla quotidianità del pubblico italiano.

Capace di colpi inferti con uno stile mai visto, ma realistici, dati a mani nude. Di soprannaturale, in Bruce Lee, c’è solo il suo magnetismo, irradiato in ogni fotogramma. Possiede il duende, quell’energia ferina che Garcia Lorca scorgeva nei ballerini di flamenco, e nei toreri de arte. Ovvero un quid inafferrabile, come un rito religioso, che brilla nei suoi occhi nerissimi e in quella grazia feroce e misurata, arrivando al cuore del pubblico.

Cinema fascista, stigmatizzò pavlovianamente larga parte critica cinematografica italiana, in pieni anni Settanta. Sorpresa da un successo popolare travolgente, ridusse un fenomeno che non capiva, a una moda viriloide per sanbabilini con pulsioni neofasciste, devoti al culto della violenza.

In realtà Bruce Lee incarnava una parabola universale di riscatto: in lui potevano riconoscersi i sottoproletari di tutto il mondo.

Scolpendo con disciplina il suo corpo minuto, aveva rovesciato la sua condizione di oppresso, demolendo anche il clichet della macchietta pittoresca, a cui era relegato ogni cinese a Hollywood, prima del suo avvento.

Aveva studiato bulimicamente moltissime arti marziali, per poi liberarsene. Finendo per creare una variante sincretica del kung fu, lo Jeet Kune Do, la via del colpo che intercetta, la cui componente essenziale non era la forza, o il fisico, ma la comprensione della natura dell’avversario. Con Bruce Lee l’arte marziale viene immersa nel pragmatismo suburbano, adattata alla diversità dei contesti. Un’eresia avversata dai tradizionalisti, perché sporca l’ascetismo del combattimento cavalleresco.

Ma Lee era un emigrato perenne, uno sradicato per status. Straniero sempre, in America, nella colonia di Hong Kong, e nella Cina tradizionale, rivendicava paradossalmente una fiera identità culturale, in contrapposizione all’arroganza del potere, degli occupanti nipponici come degli occidentali. Fraternizzava con le minoranze etniche: infrangendo il veto tradizionalista, offriva il suo insegnamento ai mediorientali, agli afroamericani, ai latinoamericani, senza mai smettere di imparare dai suoi allievi. Forse è proprio questa apertura, semplice e universale, a conferire al pensiero di Lee una forza moderna, non datata.

È un urlo autentico, lanciato contro l’oppressione, ad ogni latitudine.

fonte: www.linus.net – gennaio 2021