Haters e bestie
di:Giuseppe Sansonna
Pallido, nervi a fior di pelle, squassato con la stessa violenza da fede e vizio. Occhi azzurro ghiaccio, tondi come la testa rasata, sempre pronti a spalancarsi alla gioia disperata, alla devozione o all’orrore, come una figura di Munch. È il folgorante protagonista di Corpus Christi, diretto nel 2019 dal polacco Jan Komasa, in uscita a ottobre sugli schermi italiani. A interpretarlo è Bartosz Bielenia, perfetto nel dare corpo e inquietudine a un ragazzo recluso in riformatorio, pervaso dalla smania di diventare prete.
Ottenuta la libertà vigilata, viene spedito nel cuore della Polonia rurale, a lavorare nella segheria di un paesino. Prima di partire, si abbandona ad una notte di passione. Come certi mistici, sceglie di mortificare il corpo non con l’ascesi, ma flagellandosi di peccati: inebriato di vodka, sesso e cocaina, scompone il suo corpo ossuto a ritmo di techno, indossando incongruamente tunica nera e collarino. Quello che sembra un vezzo perverso, diventerà la sua nuova identità, la stessa che il mondo dell’ufficialità non voleva riconoscergli. Arrivato in paese, eviterà di consegnarsi alla segheria, e lascerà che l’abito che ha in valigia faccia il monaco, facendosi credere da tutti il nuovo viceparroco. Il paese, però, è avvolto da una cappa di rancore: poco tempo prima sei ragazzi sono morti nello scontro frontale con un compaesano, alcolista di lungo corso. Morto anche lui nell’incidente, ha lasciato in eredità al paese un capro espiatorio: la sua vedova, esposta a costante vilipendio, bandita dalla messa, e costretta a lasciare il marito insepolto.
L’attempato curato di campagna titolare non ha la statura né la salute per dirimere questo stallo da tragedia greca. Nell’insperato arrivo del ragazzo, vede un segno divino: prima di eclissarsi in clinica gli affida l’altare, ammonendolo sul suo pubblico domenicale: “Molta gente, pochi credenti”. Il giovane ingaggia la sfida, forte di un repertorio liturgico affinato nelle messe carcerarie, quando il cappellano li invitava a cantare la passione, sputando fuori il dolore. Padroneggiando la dimensione spettacolare del rito e i dieci comandamenti, per averli violati tutti fino in fondo, il falso prete prova a restituire al paese un abbozzo di spiritualità. Conscio di avere i giorni contati, prima di essere scoperto.
Jan Komasa ha il cinema, nel suo corredo genetico. Da bambino trotterellava dietro suo padre, ottimo attore polacco, convocato sul set di Schindler’s list per un piccolo ruolo. Da adulto, ha affinato la vocazione nella prestigiosa scuola di Łódź. Crede nel linguaggio, e ricolloca il caos interiore del suo protagonista in inquadrature geometriche, composte e inesorabili, come se ricondurre i moti dell’animo all’interno di una geometria rigorosa, bilanciando volumi e prospettive, fosse un modo per metterne a fuoco le contraddizioni. Una cura formale che non cede mai al compiacimento: le luci e i colori freddi, lividi come il dolore, sono il riflesso di un paese in cui anche nei campi sembra non poter più germogliare nulla. Come se un Dio severo e distante avesse rinunciato ad alleviare l’inaccettabilità di quelle morti premature, di quei ragazzi appesi in foto al centro del paese, vegliati quotidianamente da genitori tenuti in vita dalla rabbia.
Il finto sacerdote indaga con empatia, scoprendo dettagli e concause, tumulati in fretta da verità troppo comode. Mostra ai paesani che il concetto di colpa è una trappola, e forse è meglio recuperare la pietas. Che non cancella il trauma, ma lenisce, in parte, la sofferenza. Così il perdono smette di essere una figura retorica, e diventa palingenesi di una comunità, indotta a rimeditare su se stessa. Komasa sembra aver colto quanto di religioso ci può essere nel cinema, se si è disposti a puntare lo sguardo da angolazioni impervie, rinunciando all’ovvio. Trasformando la macchina da presa in un mezzo di contrasto, rivelatore di aporie illuminanti. Per questo il regista polacco sembra amare gli outsider, figure in bilico, costrette a imparare a spogliarsi e travestirsi, per fluttuare trasversalmente tra contesti antitetici. Impostori con un fondo di sincerità, che portano violentemente a galla il posticcio del contemporaneo. Come il protagonista di The hater, film del 2020 ora disponibile su Netflix, interpretato da uno Maciej Musiałowski strepitoso nell’incarnare un ragazzo di campagna, forse la stessa terra agra di Corpus Christi, arrivato a Varsavia per studiare Legge. Copia la tesi, non per pigrizia ma per mutuare un’identità più presentabile della sua. Scoperto, viene espulso, e si incrudelisce, anche perché non può svelare l’accaduto ai suoi anfitrioni, socialdemocratici dell’alta borghesia metropolitana. Che sembrano usciti dal pennino caustico di Gerard Lauzier, con i loro maglioni a girocollo e la supponenza pensosa da archistar, organizzatori perenni di aste di beneficenza con tornaconto politico incorporato, fieri impugnatori di valori ecumenici in cui sono i primi a non credere. Per loro, quel ragazzotto a cui hanno fatto l’elemosina delle tasse universitarie, è solo un diversivo esotico, il topo di campagna di cui ridere appena gli volta le spalle. Divertiti dal dopobarba dozzinale, da quei vestiti della domenica, dalla sua incapacità di mangiare i gamberi, dall’amore improbabile per la loro secondogenita. Per loro rimarrà per sempre il figlio del fattore, buono per tenere in ordine la villa di campagna. Ma la loro ipocrisia li rende miopi, incapaci di cogliere la mutazione antropologica del giovane Tomala, così vocato all’ipertecnologia da essere in grado di intercettare, in tempo reale, le malignità dette in sua assenza. Ferito, si aliena ulteriormente, concependo a tavolino il suo nuovo, vertiginoso, ascensore sociale, fatto della sostanza nebulizzata del digitale. Si lancia nella rete, quel mondo nuovo di cui impara presto a padroneggiare l’immenso potenziale manipolatorio, impiegando il falso, come momento decisivo del vero. Profila l’utenza, anticipando desideri, cavalcando frustrazioni, triturando strumentalmente ideologie, religioni, apparati culturali novecenteschi, e persino l’abusatissima arte della guerra di Sun Tzu. Costruendo un sistema finto, ma efficacemente feroce, mirato a distruggere nella realtà le vite dei nemici, siano essi concorrenti commerciali o avversari politici. Come quando ingaggia in incognito, come sicario, uno youtuber psicotico di ultradestra, entrando con il suo avatar in un gioco multiplayer on line, una wasteland apocalittica, popolata da divinità feroci, in perenne guerra tra loro. Un universo immersivo imbevuto di paranoia, perfetto per chiamare alle armi di una guerra santa uno psicotico angosciato dalla fine della civiltà cristiana europea. Per una tetra coincidenza, poco dopo la fine delle riprese del film, Paweł Adamowicz, sindaco di Danzica, aperto ai diritti dei migranti e delle minoranze religiose e sessuali, è stato ucciso in pubblico da uno psicopatico. Segno che Komasa ha sensibilità da rabdomante, nel cogliere i sintomi della propria epoca.
Fonte: Linus, (ottobre 2020)