EJZENSTEJN E DISNEY – all’insegna dello scheletro danzante

di:
Alessandro Cappabianca

Grande ammiratore dell’arte di Walt Disney, Ejzenstjn giungeva ad averne “quasi paura”: paura d’una perfezione che presupponeva la possibilità di attingere ai segreti più gelosi delle trasformazioni naturali, proprio là dove la natura, in quanto protoplasma originario, è in grado di assumere qualunque forma e dunque incontra il mito, scatenandosi nella successione delle metamorfosi magiche.

L’intuizione di Ejzenstejn però va oltre:

“Gli animali, i pesci, gli uccelli di Disney hanno l’abitudine di allungarsi e di contrarsi. Di prendersi gioco della propria forma, come si prendono gioco delle classificazioni zoologiche il pesce-tigre e la piovra-elefante del Circo sottomarino1.

Prendersi gioco della propria forma. L’effetto comico nasce dal fatto che l’unità di quegli esseri è costantemente esposta alla contaminazione da parte di forme e forze estranee. Un gatto può staccare da sé la propria coda e usarla come un bastone. Il corpo allungato d’uno scheletro può diventare uno xilofono. Topolino può arrampicarsi sulla propria coda come su una corda. Il collo d’un animale canterino si allunga, si tende nello sforzo, vibra come una corda pizzicata, un elastico sonoro:

“Se si vuole, l’idea stessa di animated cartoons è come l’incarnazione del metodo dell’animismo. Quel lasso di tempo in cui un oggetto inanimato è dotato di vita e di anima, che noi conserviamo quando, avendo urtato una sedia, l’apostrofiamo quasi fosse un essere “vivente”, o quel periodo durevole durante il quale l’uomo primitivo fornì di vita la natura inanimata”2.

Sono osservazioni, quelle di Ejzenstejn riguardo a Disney, che rientrano perfettamente nella teorizzazione del concetto di estasi sviluppata nella Natura non indifferente. È la struttura stessa degli oggetti che entra in gioco nella forma estatica.

“Appare chiaro, in tal modo, che la forma estatica fondamentale governa regolarmente tutti i passaggi decisivi della composizione: “l’uscire da sé” si trasforma, immancabilmente, nel passaggio in una qualità nuova …”3.

E più avanti:

“Abbiamo scoperto che il contrassegno della composizione patetica è un’incessante “estasi”, un incessante “uscire fuori di sé”: un salto continuo da una qualità a un’altra, che interessa ciascun singolo elemento e livello dell’opera a misura che il contenuto emozionale della sequenza, dell’episodio, della scena, dell’opera stessa, aumenta progressivamente fino a raggiungere un massimo d’intensità”4.

È evidente, qui, che il patetico e il comico metamorfico disneyano sono due facce della stessa medaglia. È stretto il rapporto tra ex-stasis e metamorfosi, tra l’uscire dal proprio corpo e vederlo sottoposto alle mutazioni più straordinarie. Gli agenti provocatori di Sciopero, gli spioni, con i loro volti animalizzati a colpi di sovrimpressioni (l’uomo-volpe, l’uomo-gufo, l’uomo-bulldog ecc.), danno la mano agli animali antropomorfizzati disneyani, anche se nel caso di Ejzenstejn, naturalmente, le metamorfosi sembrano dettate da ragioni di polemica politica.

Ma si pensi, p.e., a Il vecchio e il nuovo, non solo alla famosa scena della centrifuga – si pensi alla sequenza delle nozze taurine – si pensi al trattore che si guasta sul più bello e viene rimesso in moto da Marfa, che sacrifica pezzi della sua sottana per ricollegare tra loro le parti del meccanismo. Non viene forse in mente Minnie che, in Plan Crazy, utilizza come paracadute le sue mutandine, mentre l’aeroplano pilotato da Topolino sta precipitando, anche se nel caso di Minnie la motivazione mira alla sua salvezza individuale, mentre Marfa sta lavorando per la collettività? E il corteo finale degli aratri trainati in lunga fila traballante per i saliscendi campestri dal trattore finalmente riparato, non richiama forse alla memoria gli sbuffanti trenini di Disney, inerpicati su e giù per i vertiginosi dislivelli dei cartoons?

Chi si è ispirato a chi? Oppure si tratta, come è probabile, di involontarie corrispondenze animistiche?

Del resto, riguardando Il diario di Glumov, il cortometraggio che nel 1923 un Ejzenstejn agli esordi cinematografici inseriva, come una specie di doppio fuori-programma, nella rappresentazione teatrale di “Anche il più furbo ci può cascare” di Ostrovskij, è impossibile non accorgersi della frequenza con la quale torna la figura tecnico-stilistica della trasformazione tramite dissolvenza/sovrimpressione5.

Il diario galeotto è diventato una bobina di pellicola cinematografica. L’attore truccato da clown che impersona Glumov, nello spirito del personaggio/lestofante, per attirare l’attenzione degli altri personaggi e conquistare la loro benevolenza, con una semplice piroetta, di volta in volta, si trasforma in un oggetto o in un altro essere animato: un cannone, perfino una svastica (per lusingare un guerrafondaio), un bambino piccolo (per farsi prendere in braccio da una signora), una piramide di carte da gioco (per ingraziarsi un’appassionata giocatrice), un asino (per un amante degli animali).

Nei riguardi di Ejzensejn, insomma, ha ribadito giustamente Roberto De Gaetano: “L’opera d’arte deve essere allo stesso tempo organica e patetica e deve avere come modello l’essere della natura, non solo nell’integrazione fra le parti e il tutto, ma anche nelle forme del cambiamento, che fa sì che le parti fuoriescano dalla loro stasi, convertendosi le une nelle altre, dinamizzando la struttura del tutto, senza che quest’ultima perda però il principio della sua integrazione e totalizzazione”6.

Dopo che il distributore Charles Mintz, nel 1928, gli sottrasse con un raggiro i diritti sul coniglio Oswald, Walt Disney, con l’aiuto del disegnatore e amico Ub Iwerks, fu costretto com’è noto, a inventare in tutta fretta una nuova creatura cinematografica, e così nacque Mickey Mouse, un topo il cui aspetto era molto simile a quello del coniglio suo predecessore, a parte le orecchie molto meno lunghe e più tondeggianti.

Ma già Oswald, per quanto somigliasse in parte al gatto Felix di Pat Sullivan e Otto Messner, e in parte al Krazy Kat di George Herriman (perennemente bersagliato dai mattoni scagliati dal suo nemico, il topo Ignazio), si distingueva da essi per la disponibilità del suo corpo ad assumere le più straordinarie posture metamorfiche.

Del resto, Disney aveva esordito, dopo i corti ispirati alle favole di Andersen, dei Grimm, di Perrault, con la serie dedicata ad Alice, interpretata (in carne e ossa) dall’attrice-bambina Virginia Davis.

Nei corti che la vedono protagonista, Alice non fa che passare da un sogno all’altro, a cominciare dal primo, Alice in Wonderland, del 1923, che si apre con la visita della ragazzina agli Studi Disney, dove viene accolta da Walt in persona e conosce tutti gli altri disegnatori dello staff. Dopo una giornata così interessante, torna a casa, va a dormire, e non può sognare altro che un viaggio a Cartoonland. I cartoons rappresentano il mondo del sogno, dal quale Alice si sveglia solo alla fine, dopo esperienze oniriche spesso traumatiche. Qui compare uno dei primi trenini sbuffanti di Disney, trenini animati che percorrono lo schermo in lunghe sequenze di saliscendi, affrontando erte montagne e vertiginose discese.

Arrivata a destinazione, Alice è accolta con tanto di banda, da un comitato di festeggiamento. Note musicali si disegnano nell’aria (il film è muto), lei ringrazia e si esibisce in un ballo – se non che, la musica irrita un gruppo di leoni, rinchiusi in gabbia nel vicino zoo. Arrabbiatissimi, i leoni divorano le sbarre e si gettano all’inseguimento di Alice. Uno di loro, pregustando il bocconcino, si toglie i denti dalla bocca, come se si trattasse d’una dentiera, e li lustra per bene con una spazzola.

Alice fugge, i leoni la inseguono. È un tipo di inseguimento ancora giocato su direttrici laterali, senza profondità, ma già vi si contesta il principio dell’impenetrabilità dei corpi: Alice si rifugia nel cavo di un albero, e la seguono lì dentro decine di leoni; la stessa cosa accade con il foro della tana d’un coniglio – si intuisce che una rissa spaventosa sta avvenendo all’interno, mentre fuori compaiono solo scritte onomatopeiche (grrrr, zow…). Alla fine, Alice precipita lungo un interminabile, vertiginoso dirupo (e presumibilmente si sveglia).

Nel successivo Alice’s Spooky Adventure (1924), Alice si inoltra senza paura in una casa abbandonata, che i ragazzini suoi coetanei evitano, ritenendola infestata da fantasmi. Qui un gatto randagio le provoca un incidente, in seguito al quale perde i sensi. Naturalmente, durante lo svenimento, sogna, o piuttosto ha delle visioni, visioni di fantasmi dispettosi, aventi natura di cartoons. Lei e il gatto, alleati, li combattono. Il gatto si stacca la coda dal corpo e la usa come un bastone. Alice invece deve inventarsi qualcosa di più complicato – mentre riflette sul da farsi, sulla sua testa, secondo la tradizione dei fumetti, compare un grosso punto interrogativo. Lei lo afferra e lo usa come arma contundente contro i fantasmi!

Si faccia un confronto con Skeleton Dance o, meglio ancora, con Haunted House (sempre del ‘29). In una notte di tempesta, violente raffiche di vento e pioggia fanno tremare una casa dalle fondamenta – ma questo è solo un modo di dire. Nel disegno disneyano, la facciata bera della casa, con le finestre illuminate, acquista l’aspetto d’una faccia, la faccia d’una creatura vivente e sofferente, tormentata dalla furia degli elementi.

Sorpreso all’aperto, con l’ombrello, risibile riparo, distrutto dalle raffiche di vento, Topolino ha la cattiva idea di rifugiarsi proprio in questa casa, dove, appena entrato, l’uscio si chiude con un massiccio catenaccio; a dargli il benvenuto è uno stuolo di pipistrelli volanti, nonché una gigantesca tarantola.

Poi compare un esercito di scheletri semoventi, guidati da un tenebroso fantasma. Tutto è molto più terrificante rispetto ai fantasmini di Alice, e in effetti Topolino è terrorizzato – ma ciò che essi vogliono da lui è che si sieda al piano e suoni una sorta di danza macabra, alla quale tutti si uniscono ballando e usando le loro ossa come strumenti a percussione.

Ne viene fuori un numero musicale, in alcuni momenti perfino divertente, che però non riesce mai a nascondere del tutto il suo carattere inquietante.

Sarà eccessivo interpretare questo e altri lavori disneyani come piccoli riti di esorcismo contro la paura della morte? Non credo proprio. Comicità e terrore, in Disney, sono sempre andati di pari passo, culminando nelle figure spaventose della strega di Biancaneve o del Diavolo alato di “Una notte sul Moncalvo” (in Fantasia), che hanno terrorizzato generazioni di bambini.

Le metamorfosi investono perfino l’apparentemente definitiva rigidità dello scheletro – e noi non possiamo non pensare anche ai disegni messicani di Ejzenstejn, a certe sequenze di Lampi sul Messico, alle maschere e ai gadget popolari filmati dal regista russo durante i festeggiamenti per il Giorno dei Morti7.

Disney ed Ejzenstejn uniti: all’insegna dello scheletro danzante.


NOTE

EJZENSTEJN E DISNEY

  1. S. M. Ejzenstejn, Walt Disney, SE, Milano, 2004; pp. 17-18.
  2. p. 38.
  3. S. M. Ejzenstejn, La natura non indifferente, Marsilio, Venezia, 1992; p. 41.
  4. p. 45.
  5. Cfr. il saggio di G. Buttafava, Il diario di Glumov, in “Immagine. Note di storia del cinema”, anno II, n. 1, fascicolo terzo, 1982, reperibile in rete.
  6. R. De Gaetano, La potenza delle immagini. Il cinema, la forma e le forze, ETS, Pisa, 2012; pp. 9-10.
  7. Cfr. G. Festa, Lettera precolombiana 7. Seconda parte, “Eizenstejn, nella serie disegnata non trascrive ciò che vede ma traspone (inventa, concentra e deduce, secondo quanto dice lo stesso regista a proposito di Disney), trasferisce in un mondo quel che ha visto in un altro. Se il realismo è infatti soggetto alle leggi della coerenza del soggetto e del tema, il cartoon obbedisce di contro alla mutabilità permanente, alla fluidità, all’imprevedibilità delle formazioni, in quella che è una ricreazione seconda del mondo”, in “Filmcritica”, n. 650, dicembre 2014, p. 497.