IL DESTINO DELLE IMMAGINI

di:
Alessandro Cappabianca

Ogni regista mediocre, oggi, è in grado di raccontare una storia, e di raccontarla magari bene, se ha un po’ di mestiere – solo che l’esercizio di raccontare bene sta perdendo progressivamente di senso, come se raccontare bene non fosse più tanto diverso dal raccontare male – o perlomeno, come se alcuni si rendessero conto (Malick è tra questi) che il cinema può (deve) essere altro – altro dal raccontare. Altro – ma cosa?

Se non si tratta più di raccontare, si tratterà forse di mostrare? Ma se non si passa nel campo della sperimentazione, della video-arte, delle istallazioni ecc., e si rimane all’interno dell’universo produttivo tradizionale del cinema, come mostrare immagini suggestive, magari emergenti in filigrana tra gli interstizi della storia che ancora si deve fingere di raccontare? Così si corre il rischio dell’estetismo, del simbolismo o, peggio, della volgarizzazione “filosofica”, ed è un rischio reale, talmente incombente che (a mio parere personale) lo stesso Malick non ne è rimasto del tutto immune, in certi momenti di Tree of Life come di To the Wonder. Le immagini hanno spesso questa maledetta abitudine: tendono a diventare “belle” (specie se il direttore della fotografia è bravo), oppure pretendono di dire troppo – e allora sono guai.

Knight of Cups, invece, sfugge del tutto (o quasi) a questo rischio e propone con discrezione la necessità di porci tutti gli interrogativi possibili sulla natura e il destino delle immagini. Cosa sono? Da dove vengono? Dove vanno a finire, quando scompaiono?

Godard ha già provato a rispondere, quando ha scritto nelle Histoires de cinéma (seguendo forse una suggestione paolina), “L’image viendra au temps de la résurrection”, a proposito della scena finale di Duello al sole (scena in cui i due protagonisti, un uomo e una donna, muoiono, sparandosi a vicenda, ma tentano in extremis di ricongiungere almeno le loro mani). Scrive, più precisamente: L’IMAGE/VIENDRA/OH! TEMPS/DE LA/RESURRECTION, dove l’OH! al posto di AU fa risuonare (appena) una sorta di lamento. Malick è meno assertivo, non scrive niente, si limita a sussurrare in voce-off frasi appena udibili, magari dal Pilgrim’s Progress – al massimo, fa vedere cartelli con i nomi di alcune carte dei tarocchi, che però segnano solo in apparenza una divisione tradizionale in capitoli.

Le immagini emergono dal buio. No – veramente è solo la prima immagine (del film) a emergere dal buio, le altre la seguono, come ne fossero già uscite e aspettassero in fila il loro turno. Un personaggio (sapremo poi che si chiama Rick e fa lo sceneggiatore a Los Angeles) si trova catapultato all’improvviso in un grande spazio desertico, tra pozze d’acqua che si stanno seccando e una catena di montagne sullo sfondo. Cammina, cambia direzione, non sa bene da che parte dirigersi. Al totale dell’inizio, seguono piani più ravvicinati. Visibilmente, il personaggio – ma anche l’attore! – non sa dov’è, non sa cosa fare. È perplesso (e lo sarà per tutto il film).

Poi l’immagine scompare, sostituita da un’altra: un’aurora boreale, fotografata lungo l’orizzonte curvo della terra. Già qui potremmo fermarci e chiederci: che fine ha fatto il paesaggio della prima immagine? È definitivamente sparito o ha raggiunto un deposito, una stanza di decantazione della memoria, dalla quale prima o poi potrebbe tornare? Se è in una stanza della memoria, la memoria di chi? Del regista, si direbbe – ma un po’ di ogni spettatore. E che caratteristiche deve avere un paesaggio, appena intravisto, per diventare memoria così rapidamente? Significa che in qualche modo l’avevamo da-sempre-già visto (non solo, quindi, in qualche altro film di Malick), o da-sempre-già sognato? O che abbiamo avuto l’impressione di averlo visto già-da-sempre, subito dopo averlo visto per la prima volta? Come se ricordassimo qualcuno o qualcosa (non necessariamente umani) che l’abbiano visto prima di noi, prima che ci fossimo? È forse possibile il risveglio d’una memoria genetica?

Emerge dall’acqua un bambino, su una spiaggia, tra le onde, in riva al mare. Poi una madre lo porta in braccio (è lo stesso bambino?). Uccelli, nuvole, uno strano oggetto volante. Infanzia. Poi un adulto. Poi una ragazza. Un’altra ragazza. Un’onda corre verso la ndp, sembra volerla sommergere. Ancora acqua, acqua del mare, d’una piscina hollywoodiana, di un acquario. Osservare i pesci in un acquario. Esserne osservati. Se di immagini già viste si tratta, oltre alla memoria personale, oltre alla memoria genetica, accennano addirittura a una memoria pre-genetica (ammesso che esista), voglio dire a una memoria immemoriale, di quando l’acqua era il nostro (nostro?) elemento vitale (anche i pesci di Straub, nel loro acquario, ne sanno qualcosa).

Un terremoto: tutto comincia a tremare, il ventilatore oscilla, i vetri delle finestre vibrano. Piove un vaso dalla terrazza. Anche Rick lo vediamo svegliarsi di soprassalto, scendere di corsa in strada – ma non è sicuro che il terremoto sia un evento sufficiente a svegliarlo , a svegliarlo da un altro sonno: il sonno del vegliambulo deleuziano, che non rinuncia a vagare tra gli spazi deserti di teatri di posa abbandonati e neppure ad aggirarsi, di notte, per le terrazze degli edifici di Los Angeles, pellegrino sonnambulo, che comunque, nella città degli Angeli, non incontrerà Angeli.

Destino delle immagini è scomparire, sostituite da altre – alcune tornano, molto simili, ma non identiche. Nulla, in realtà, torna senza cambiare, almeno in una certa misura. Questa è una delle ragioni per cui il dormiente si confonde, e non riconosce se stesso, quando incontra un’altra versione di se stesso.

Pilgrim’s progress: c’è il viaggio onirico, ma non c’è risveglio, che già prefigurerebbe una trama, una storia. C’è l’apparire e scomparire delle immagini, a volte secondo una sintassi di piani, prospettive e punti di vista, a volte senza. Ci sono immagini che non procedono da uno sguardo, quasi non presuppongono occhi: immagini brancolanti, che procedono a tentoni, a malapena rivolte a cogliere un confuso avvinghiarsi di corpi: inquadrature “brutte”, inquadrature non inquadrate (body’s camera?), accanto ad altre di raffinata bellezza – ma anche di queste, la bellezza non riguarda mai soltanto l’estetica. Le immagini sorprendono sempre il pellegrino addormentato, o disorientato, che sia nel deserto o nel bel mezzo d’una festa. Il pellegrino di Bunyan, con Malick, diventa un sonnambulo, che neppure un terremoto potrebbe svegliare davvero. Troppo forte è la suggestione delle immagini sognate, troppo struggente la nostalgia del loro ritorno.

Il figlio del re s’è smarrito in un labirinto temporale , da cui nessun film potrà liberarlo. Il film, anzi, è l’immagine stessa del labirinto, dove appaiono e scompaiono, a mo’ di fantasmi, personaggi stranamente familiari (un padre, due fratelli…), prati verdi dell’infanzia, spiagge, ville con piscina, deserti, assieme ad altre versioni di se stessi, che in quanto tali ci sembra di riconoscere, ma senza che possiamo esserne mai del tutto certi. Gli incontri possono dipendere da combinazioni casuali, come la distribuzione delle carte nel gioco dei tarocchi. Come nei tarocchi, le figure sono enigmatiche.

L’avventura di Rick (e di Malick) è insieme eccitante e terribile. Allo spettatore, per sentirla e capirla, occorre saperla riconoscere: si chiama vita, ed è collegata alla memoria.

In quanto provenienti dall’archivio della memoria, queste immagini non si cancellano, restano immagazzinate in quel buio deposito figurativo dal quale ogni tanto riemergono: tornano sempre, per certi versi riconoscibili, ma mai identiche a se stesse, sempre in qualche modo modificate dalla durata del loro soggiorno nell’oscurità e dalle immagini che le hanno precedute e seguite tra un’uscita e l’altra.

Ma qual è la natura di queste immagini? Quali caratteristiche debbono avere, per tornare (uguali e ogni volta dissimili) con tanta insistenza?

Credo che ciò dipenda dal loro carattere traumatico, che non vuol dire necessariamente violento, ma (forse) necessariamente doloroso.

Le immagini che tornano sono quelle che ci hanno colpito come provenienti con forza dal reale, ossia da un fuori di noi enigmatico – enigmatico in quanto riesce a colpirci proprio come esperienza d’un fuori radicale, sul quale non abbiamo alcuna padronanza, che ci colpisce all’improvviso. Allo stesso modo, le immagini riemergono all’improvviso dal buio, e rinnovano il trauma, in una forma non attenuata, ma diversa: come se in fondo le immagini ci si potesse illudere di padroneggiarle, in qualche modo, almeno in parte. Come se esistesse, dopo tutto, una qualche forma di risarcimento di ciò che si è perso. Poi, invece, esse si affollano, premono per tornare non chiamate, ripropongono, nell’immaginario, la dolorosa nostalgia della perdita originaria.